Giuseppe Aschieri


FEDE COME PROGETTO DI VITA



Stesura 2001

Aggiornamento 2014


1 INTRODUZIONE



Penso che l'uomo non possa vivere senza una fede in un progetto di vita, in un progetto di salvezza e di liberazione di se stesso e della comunità in cui vive (per evitare ambiguità uso il termine fede, scritto in corsivo sottolineato, che in questa accezione è molto vicino ai concetti di vocazione e di missione, per distinguerlo dal termine fede inteso come credenza in verità non dimostrabili o come sinonimo di religione, che si riferisce invece sia all'insieme delle credenze e dei riti che la caratterizzano che agli ideali di vita che la animano).

I progetti, la fede in essi, l'idea stessa di progresso guardano al futuro, appartengono alla dimensione del possibile, dell'utopia, non dell'esistente. Essi sono frutto della creatività dell'uomo. Tengono conto della realtà in cui sorgono ma la trascendono poiché quanto vogliono realizzare non deriva automaticamente da essa.

La facoltà progettuale è una delle caratteristiche più altamente umane che deriva dalla libertà dell'uomo di poter scegliere i suoi piani di vita, di ideare il suo futuro.

Dalla fede in un progetto di vita sorgono il sentimento del dovere, i concetti di bene e di male e i valori morali.


La dimensione conoscitiva è nettamente separata da quella progettuale: non ha per oggetto il regno del possibile ma quello dell'esistente. Aristotele aveva d'altronde già chiaramente diviso le discipline tra teoretiche e pratico-poietiche. Una visione dinamica e non statica della realtà facilita la comprensione di questa differenziazione tra regno del reale e quello del possibile, tra l'essere e il poter/dover essere. La dimensione conoscitiva è quella che dà il materiale e gli strumenti all'uomo perché possa realizzare i suoi progetti.


Una contrapposizione tra scienza e fede (secondo la definizione sopra enunciata) non ha assolutamente motivo di sussistere, anzi esse hanno bisogno una dell'altra (diverso è il discorso relativo a scienza e credenze religiose che spesso è conflittuale). La fede infatti si deve avvalere di ogni seria conquista della conoscenza del reale se vuole evitare di dirigere il cammino dell'uomo con gli occhi bendati, in terreni avvolti dal mistero. Viceversa la conoscenza sarebbe vuoto sapere se non fornisse le informazioni che contengono le risposte utili e rilevanti ai problemi posti dal cammino esistenziale intrapreso.

Per maggiore chiarezza vorrei ancora precisare che bisogna naturalmente dare alla dimensione conoscitiva l'accezione più ampia: essa non riguarda solo quella scientifica ma anche quella filosofica tesa a dare della realtà spiegazioni ragionevoli e plausibili.


Le religioni da sempre hanno proposto al singolo e alla comunità progetti di vita, animando quindi una fede comune, ma purtroppo, frenate da atteggiamenti troppo tradizionalisti e conservatori, non si sono preoccupate di curare, aggiornare, rivedere in continuazione i progetti di vita proposti per renderli sempre aderenti alle vere esigenze ed aspirazioni dei singoli e della comunità e per rinnovare continuamente l'utopia di una vita migliore, di un mondo migliore. Esse inoltre hanno voluto strafare e, nell'intento di ottenere incondizionata adesione ai progetti di vita proposti, li hanno ancorati a qualcosa di solido e inamovibile: a libri sacri, a rivelazioni divine o a "corpi dottrinari" infallibili, aventi la pretesa di descrivere l'esistente (naturale e soprannaturale). Esse hanno abusato troppo spesso del principio di autorità per spegnere ogni dibattito e per chiedere acritica adesione e obbedienza a credenze e gerarchie. Questo atteggiamento ha dato sì a molti l'impressione di avere delle certezze ed una guida sicura nell'affrontare i problemi esistenziali ma ha fatto pagare per tutto ciò un prezzo molto alto: la cristallizzazione dei vivi progetti di vita di una comunità e della dinamica ricerca di comprensione della realtà in dogmi morali e teoretici. Le conseguenze di questa cristallizzazione sono stati poi gli scontri dottrinari (spesso cruenti) tra le diverse confessioni, la contrapposizione tra scienza e libera ricerca filosofica da una parte e verità religiose dall'altra, la distanza talvolta incolmabile tra le reali esigenze dell'individuo e della comunità in cui vive e le risposte "fuori del tempo" che vengono dall'autorità religiosa.

Le religioni, nonostante le critiche sopra esposte, sono state e possono continuare ad essere centri di fede, cioè di elaborazione di progetti di vita. Penso però che sia necessario, per evitare dannose cristallizzazioni, svincolare la fede presente in esse da credenze e dogmi teologici, accettando che le categorie, i simboli, il linguaggio, i riti, le cerimonie e le feste, che sono stati nei secoli veicolo per un cammino nella fede, costituiscano nel loro insieme una sorta di grandiosa opera artistica, di scenario teatrale che dà significato alla tragedia dell'esistenza umana e a cui deve andare tutto il rispetto e la venerazione per aver consentito alla fede di esprimersi all'interno della cultura di un popolo.

Non vedo infatti perché non si debbano usare, in maniera metaforica e mitica, i concetti legati alla visione del mondo in cui, nel caso del cristianesimo ad esempio, duemila anni fa si incarnò uno dei più rivoluzionari messaggi di fede che il mondo abbia mai conosciuto. Tali concetti, in fondo, anche se non esprimono sempre verità oggettive (nel senso cognitivo del termine) sulla realtà che ci circonda contengono ugualmente quel tipo di verità che è caratteristica dell'arte e che solo il suo linguaggio sa esprimere, conferendo loro valore eterno e immortale.

Se la fede si conserva anche a partire da un diverso schema di interpretazione della realtà, sia esso di tipo immanentista, laico o socialista, non c'è che da esultarne perché questo fatto testimonia la validità e continuità nel tempo del progetto che la fede porta avanti.



2 CARATTERISTICHE DELLA FEDE


Cerco di chiarire di seguito il significato dell'esaltante esperienza di vita generata dalla fede. Definire infatti che cosa intendo per fede è indispensabile visto l'uso che talvolta ne viene fatto come sinonimo di accettazione acritica di credenze.


La fede nasce nel regno della libertà: solo l'uomo libero può essere in grado di manifestare atteggiamenti di fede.


La fede nasce dalla comprensione della "finitudine" umana, dell'inadeguatezza di noi stessi come individui e dell'imperfezione della comunità in cui viviamo. La fede nasce dalla convinzione che possano esistere situazioni di vita più piene, più vere, più altamente umane.

Fede non è credere in una specifica forma di vita migliore (si scivolerebbe in questo caso facilmente nell'idolatria e nell'integralismo) ma credere che il progetto di realizzazione umana debba ancora compiersi.

Fede è moto da come si è a come si vorrebbe-dovrebbe essere. In un certo senso è rifiuto dell'esistente perché è credenza nelle possibilità di trascenderlo con l'atto creativo delle nostre scelte libere e responsabili.

Come frutto di un atto creativo il punto di arrivo non può essere "pre - determinato" in maniera sicura e definitiva (si cadrebbe in tal caso nell'idolatria di preconcetti di "vita migliore" o di "progresso" e nelle forme di integralismo che ne derivano). La meta del proprio cammino inoltre può e deve essere in continuazione definita e ridefinita nel corso del cammino intrapreso. La fede cioè dà un orientamento al cammino dell'esistenza, non ne definisce il punto di approdo.


Con la fede l'individuo sente di avere non solo l'obbiettivo di valorizzare la propria vita, cioè di viverla come vocazione, ma anche di avere, all'interno della comunità un compito unico e insostituibile, cioè una missione da compiere.

La fede può infatti essere caratterizzata da due momenti: quello relativo ai progetti individuali e quello relativo ai progetti che riguardano la comunità in cui uno vive. Si tratta comunque di due momenti che sono apparentemente separati perché nella realtà costituiscono due aspetti inscindibili di un unico atteggiamento umano. Non è infatti pensabile l'uomo avulso dalla comunità umana di cui fa parte in maniera organica. Il processo di crescita e di realizzazione individuale passa e viene valorizzato all'interno della comunità umana di cui fa parte. Al tempo stesso la fede che anima una comunità non può umiliare o ignorare quella individuale ma deve essere in grado di valorizzarla. Il superamento di eventuali tensioni tra progetti di vita individuali e della comunità avviene certamente meglio in un ambiente di piena democrazia.


La fede presenta sempre un carattere utopico, che non deve essere comunque inteso nel senso negativo di illusorio e come tale irraggiungibile, ma nel senso positivo di progetto possibile di crescita umana. La fede non può quindi sorgere avulsa dalla realtà e in particolare da quella umana, ma anzi sorge e viene vivificata da una sua profonda comprensione, e dalla percezione chiara della situazione in cui si trova l'individuo e l'umanità nel suo lungo e imprevedibile cammino.

Il continuo confronto della propria fede con la realtà che ci circonda e la conseguente necessità di rimetterla tutti i giorni in discussione per arricchirla o correggerla le evita inoltre di cristallizzarsi in posizioni rigide rendendola invece sempre viva e aderente alle necessità di una vera crescita umana.


Per quanto riguarda la realtà umana conoscerla vuol dire anche afferrarne limiti e contraddizioni: è proprio dalla presa di coscienza di questi limiti che sorge il progetto per un "futuro migliore", che si intravede una strada di "salvezza" verso una nuova umanità, un'umanità che riesca a riscattarsi da quello che viene avvertito come limitazione, male, dolore e che permetta all'uomo di realizzarsi più pienamente. Se il progetto viene avvertito come la risposta giusta ecco che si intuisce che si è raggiunta la "pienezza dei tempi", che è giunto il momento delle scelte, che la situazione è a un punto di svolta, è pronta per un piano di riscatto, di salvezza. Nella predicazione dei profeti dell'Antico Testamento si possono ritrovare i tratti caratteristici della fede come or ora descritto; il "futuro migliore" a cui aspira il progetto di "salvezza" è da loro visto, in termini biblici, come l'era messianica verso cui tende il popolo d'Israele.


Quando un progetto viene compreso e condiviso da un'intera comunità si può avviare un processo di liberazione: è giunto il momento magico dello "stato nascente" descritto da Alberoni. E' questo il trionfo della fede, è il momento che all'utopia di un mondo migliore viene data una chance di concreta realizzazione, il momento in cui l'uomo, facendo un uso responsabile della sua libertà di progettare e scegliere il suo cammino di crescita, crea il suo futuro.


La motivazione primaria, la molla principale che ha spinto ad esempio Gesù alla predicazione è stata l'esaltante certezza che l'uomo per salvarsi aveva bisogno di abbandonare odi e divisioni per incamminarsi invece sulla strada dell'amore, della solidarietà, della collaborazione, della tolleranza, della non-violenza. Detto in altri termini la mentalità su cui si basavano i rapporti tra gli uomini dovevano essere radicalmente capovolti.


Perché il progetto di rinnovamento possa un giorno realizzarsi pienamente la fede in esso deve essere totale, senza tentennamenti, profondamente inserita nelle proprie convinzioni.

E' giusto che la fede raggiunga la forza di trasportare le montagne, che cacci i dubbi sulla realizzabilità dell'utopia che difende, che faccia urlare ai suoi fedeli: "Credo quia absurdum".


Inseparabile dalla fede è la speranza. Questa è vittoria sul dubbio che il progetto sia un'utopia illusoria, che non sia mai realizzabile, che il cammino intrapreso porti semplicemente al nulla. Qui ovviamente non parlo del dubbio relativo agli aspetti tecnici legati alla realizzazione del progetto ma alla capacità umana, del singolo e della comunità, di muoversi con determinazione verso gli obbiettivi previsti.

Non si tratta però solo di determinazione, sarebbe bello infatti che fosse solo una questione di volontà, si tratta piuttosto di essere creativi, cioè di saper trascendere la realtà per costruire il futuro. Come si sa alla creatività non si comanda con un semplice sforzo di volontà ma coinvolgendo e impegnando nel compito tutte le proprie risorse.

La speranza è quell'atteggiamento che accompagna la fede allontanando incertezze e indecisioni che potrebbero indebolirla o addirittura distruggerla.

Inseparabile dalla fede è anche l'amore (carità). Non c'è infatti fede se non all'interno di una comunità ed è ovvio come essa non possa essere vissuta se l'individuo non sente, con un rapporto di amore, come vitali i problemi del suo "prossimo" o se la comunità non coglie, con attenzione amorosa, i problemi dell'individuo come essenziali per la crescita della comunità stessa.



3 FEDE E ETICA


La fede, come si è detto nelle pagine precedenti, è quella convinzione profonda in un progetto di salvezza e di liberazione capace di orientare e dare significato alla nostra azione. In una vita illuminata dalla fede il nostro agire di conseguenza acquista inevitabilmente delle valenze di natura etica.

Risultano positive cioè tutte le azioni che vanno nella direzione del progetto di vita condiviso mentre quelle che lo contrastano sono eticamente condannabili. Senza una fede in un piano di crescita individuale e collettivo, non ha infatti senso parlare di etica e di norme morali perchè viene a mancare proprio il criterio con cui valutare la bontà o meno delle nostre azioni.

Per dar forza ed autorità alle norme morali si è tentato sovente di dar loro un fondamento oggettivo parlando di morale naturale, che cioè si basa sullo studio della natura dell'uomo, o in ambito religioso facendole derivare direttamente da una volontà divina. Ma in realtà le norme morali non sono derivabili dallo studio della realtà, non sono il risultato di uno sforzo conoscitivo. Esse, come la fede, appartengono al regno del possibile non dell'esistente, del dover essere e non dell'essere. La scienza si è dimostrata in linea di principio impotente infatti nel dare contenuti oggettivi ai concetti di bene e di male.

Le norme morali e i giudizi etici su ciò che è buono o cattivo, che sorgono da un dato progetto di vita, vanno in ogni caso a sovrapporsi, a sostituire ed eventualmente a correggere quanto su tali argomenti le generazioni precedenti hanno elaborato in un lungo processo storico ove si sono succeduti innumerevoli progetti di crescita umana. Proprio questo processo di accumulo e di evoluzione, che si svolge in seno ad una comunità, caratterizza il divenire di una civiltà. I valori morali non nascono cioè dal nulla ma emergono e ricevono significato all'interno di una tradizione morale e culturale con la quale devono sempre confrontarsi. Si osserva comunque che i valori morali formatisi in seno a differenti civiltà hanno sovente delle analogie; non c'è da stupirsi, visto che si tratta spesso di risposte a problemi esistenziali comuni, a partire da quelli più strettamente legati alla sopravvivenza dell'individuo e del gruppo sociale quali la lotta contro le malattie, la fame, le aggressioni esterne, la disgregazione sociale.




4 FEDE E DEMOCRAZIA


La fede vissuta in seno ad una comunità nasce da un progetto condiviso dai componenti della comunità stessa ed è necessario, oltre che giusto, che ciascuno direttamente o indirettamente dia il proprio contributo con pari diritto e dignità. La fede all'interno di un gruppo sociale è pertanto veramente genuina e sinceramente vissuta solo in una situazione di piena democrazia, ove però coloro che hanno voce in capitolo non sono solo quelli della generazione attuale ma, in un certa misura, anche quelli delle generazioni passate e di quelle future. Il rispetto del pensiero delle generazioni che non appartengono alla nostra epoca non deve ovviamente essere sopravvalutato ma certamente non può essere totalmente ignorato, pena lo svincolare la fede dal corpo multigenerazionale della civiltà cui l'individuo appartiene.



5 ITINERARI VERSO LA FEDE


Penso che il cammino verso una fede sia sempre un processo personale, individuale e quindi irripetibile, simile forse ma mai identico a quello seguito da altre persone. Di conseguenza anche l'intima esperienza della fede di ciascuna persona non potrà mai essere identica a quella di altre.

Chi è toccato dalla fede in fondo agisce come un innamorato: anche per quest'ultimo il percorso verso l'amore è unico e personale.


Le motivazioni infatti che possono portare una persona a vivere una fede grande e sincera vengono dal complesso mondo dei suoi sentimenti, passioni e desideri, dalla percezione del sacro nella realtà che lo circonda, dal senso che dà alla propria esistenza e al mondo in cui vive, dalla sua sensibilità ai valori morali che scorrono nella società, dalle aspirazioni che nascono e si radicano nel suo cuore, dalla sua visione del mondo (conscia o inconscia che sia) e dalla sua cultura.

E' bene, penso, che vi sia una pluralità di motivazioni dietro ad una stessa fede vissuta all'interno di una comunità: quello che è importante è infatti che ci sia unità d'intenti, non necessariamente di motivazioni.

Queste rappresentano un fatto privato e talmente personale che preferibilmente è meglio mantenere riservato: discuterne può portare a incomprensioni e fraintendimenti e può dividere inutilmente le persone unite da una medesima fede.

Se infatti è possibile, anche se difficile, discutere delle motivazioni esprimibili con parole, perché filtrate da un processo di razionalizzazione o perché utilizzano categorie concettuali comprensibili solo all'interno di un comune linguaggio culturale, è praticamente impossibile discutere delle motivazioni a-razionali, cioè quelle che trovano alimento dal contatto diretto con la realtà senza e prima del filtro verbale, cioè quelle forme a priori di percezione della realtà quali il senso estetico, quello etico, quello del sacro, ecc. A queste percezioni dirette della realtà bisogna aggiungere tra le motivazioni irrazionali la risposta istintuale, non ancora filtrata dalla ragione, costituita dai nostri impulsi comportamentali più profondi e naturali quali l'aggressività, l'erotismo, la pietà, l'affetto materno, ecc.

Praticamente tutti gli elementi sopraccitati, relativi alle motivazioni a-razionali, sono stati in varia misura alla base di movimenti sociali, religiosi e politici nel corso dei secoli e fra i diversi popoli. Basti pensare al ruolo fondamentale che ha l'estetica nella religione buddista giapponese (zen), l'erotismo in alcune manifestazioni religiose indiane, l'aggressività nel sacro amor di patria o quello etico nei movimenti umanistici e in quelli della non-violenza. Un ruolo preponderante nella maggior parte dei movimenti religiosi (soprattutto occidentali) ha comunque il senso del sacro.

Questo sentimento, come ha spiegato Rudolf Otto nella sua opera "Il sacro", costituisce un momento conoscitivo a priori che coglie certi aspetti della realtà circostante sotto la speciale categoria del "numinoso". Per numinoso Otto intende quel particolare stato d'animo che subentra ogni qualvolta un oggetto o una situazione viene avvertita come tremenda, inquietante, soggetta a misteriose forze coscienti che possono avere potere assoluto, nel bene e nel male, sulla vita umana e su quella della comunità, generando reazioni di timore, rispetto, impotenza.

Il sentimento del sacro, con la forte reazione emotiva che lo accompagna, carica l'oggetto della propria attenzione di attributi e significati particolari operando in maniera simile agli altri già menzionati moti a-razionali che provengono dalla radice profonda del nostro io. Nel caso del sacro tali attributi vanno dal puro/impuro e grazia/peccato all'ira/misericordia.

Anche il sentimento del sacro è una delle componenti dell'animo umano che può rappresentare, come gli altri sentimenti umani una spinta insostituibile all'azione dell'uomo. Ma è anch'essa una forza cieca e come tale pericolosa se non indirizzata e controllata dalle altre componenti della personalità umana, non diversamente dagli altri sentimenti a-razionali che possono, se lasciati a se stessi, generare mostruosità: l'aggressività può ad esempio manifestarsi quale violenza distruttrice e l'amore materno quale soffocante attaccamento per il proprio figlio.

I grandi profeti si sono sempre trovati di fronte alla necessità di reindirizzare o reinterpretare il sentimento esistente del sacro per evitare che fosse di ostacolo ad un nuovo messaggio di fede. Sovente si sono trovati costretti a combattere alcune credenze sacre, declassandole a superstizioni, a condannare riti sacri violenti con spargimento di sangue animale e purtroppo talvolta umano, a sciogliere paralizzanti tabù e ad attribuire sentimenti sacri a nuove divinità, scritture, valori morali, norme sociali e comportamentali. E' quello che in fondo hanno fatto anche i missionari di molte religioni, nella loro attività di proselitismo, anche se sovente purtroppo solo con un effetto distruttivo, invece che di reindirizzamento, sulle culture e i sentimenti sacri esistenti.

E' indubbio che ancorare una fede a dei sentimenti di sacralità consente di darle solide fondamenta; bisogna essere però coscienti delle possibili cristallizzazioni che potrebbero indurre sulla fede, che deve essere invece capace di rinnovarsi ogni giorno se vuole mandare avanti il proprio progetto di vita con aderenza alla realtà.

I sentimenti sacri, con il loro carattere assoluto e dogmatico, che a livello a-razionale rivestono, possono essere, in particolare, di ostacolo ad un incontro fra le grandi religioni universali.



6 LA TENSIONE NELLA STORIA TRA PROGETTI DI VITA (FEDI), CREDENZE IDEOLOGICO-RELIGIOSE E LA CONOSCENZA SCIENTIFICO-FILOSOFICA



Un progetto di vita, che coinvolga non solo un singolo individuo ma in particolare una comunità, si appoggia quasi sempre a simboli e immagini che possano richiamare alla mente delle persone gli obbiettivi del progetto di vita che li unisce. Soprattutto nelle religioni si va sovente oltre i simboli e si àncora il progetto di vita a visioni del mondo, a storie sulla sua origine, a narrazioni sulla storia dell’uomo nei secoli passati, ecc., creando dei miti e talvolta addirittura un corpo di “credenze” e di “verità di fede” funzionale al progetto di vita condiviso. Per dar maggior forza al progetto di vita comune, ai miti e alle “credenze” viene sovente dato un valore di verità e una capacità di spiegare il mondo e l’uomo superiori a quelli cui può arrivare la scienza, la filosofia e le scienze storiche.

Questa situazione crea potenziali tensioni e conflitti. Cosa fare infatti se l'arduo cammino, verso una più plausibile comprensione della realtà - condotta da intellettuali, studiosi e pensatori in tutto il mondo con un ricerca onesta e paziente e senza preconcetti politici o religiosi - conduce a delle conclusioni in contraddizione con le credenze religiose o ideologiche, a cui viene dato valore conoscitivo? E’ comprensibile che la critica delle “verità religiose o ideologiche” faccia temere un indebolimento della determinazione a perseguire il progetto di vita comune e induca a reagire alle critiche con censure, con accuse di eresia e, nei secoli passati addirittura con i processi dell’Inquisizione o nel caso dello stalinismo con i gulag. E’ comprensibile che si presenti un dilemma: difendere, a fin di bene, credenze religiose o ideologiche, sacrificando l’onestà intellettuale o viceversa difendere quest’ultima affrontando il difficile lavoro di ancorare i progetti di vita a nuovi simboli, immagini, miti e credenze?

Prima di vedere quali atteggiamenti sia possibile adottare per evitare le tensioni e i conflitti suddetti analizzerei in questo capitolo le situazioni in cui essi si sono presentati nel corso della storia e come siano stati affrontati.



"La Repubblica" di Platone


Platone nella sua opera "La Repubblica" propone una riforma morale e civile della società, cioè un progetto di vita sociale, basato sulla divisione dei cittadini in tre classi: il popolo comune, i soldati e i custodi. Questi ultimi rappresentano la classe dei filosofi-governanti, una specie di casta sacerdotale con ampi poteri politici che si estendono a tutte le sfere dell'attività umana, da quella economica a quella artistica.

Perché la popolazione accetti senza grandi discussioni questa divisione Platone elabora un mito che la classe dei custodi deve inculcare nella popolazione e tramandare di generazione in generazione. La parte centrale di questo mito è costituita dal dogma che Dio ha creato uomini di tre tipi, i migliori fatti d'oro, altri d'argento ed altri infine di ottone e di ferro. Quelli fatti d'oro sono adatti ad essere custodi; quelli d'argento saranno i soldati; gli altri faranno i lavori manuali. Platone riconosceva che non sarebbe stato semplice far credere alla prima generazione questo mito, ma pensava che quelle successive potessero essere educate in modo da non aver dubbi in proposito.

Ritengo questo progetto di società ideale particolarmente significativo perché si presta ad alcune considerazioni utili al tema che intendo sviluppare nelle pagine che seguono.

Platone è animato dalla volontà di riscattare il popolo ateniese dalle difficoltà che sta attraversando, pensa alla possibilità di una organizzazione sociale più razionale ed efficiente e si impegna nell'elaborazione di un progetto per una società perfetta. A questo punto il filosofo ateniese si rende conto che il progetto, perchè abbia una sia pur minima possibilità di successo, deve essere però accettato senza dubbi e contestazioni dalla stragrande maggioranza della popolazione. La soluzione viene da lui individuata nel "mito fondatore" atto a sostenere credenze funzionali al tipo di società auspicata.

Platone non sembra preoccuparsi del fatto che le credenze che intende inculcare nella popolazione non siano frutto di una spassionata ricerca filosofica sul mondo e sull'uomo ma costituiscano una specie di "bugia regale", come l'ha chiamata B. Russell. Platone infatti, con un atteggiamento che ricorda i filosofi pragmatisti, è interessato soprattutto al fatto che le credenze siano buone e utili per la società più che vere per la conoscenza filosofica.

E' indubbiamente encomiabile l'obiettivo sociale che Platone si prefigge di raggiungere, ma si rende conto degli effetti pericolosi che possono derivare dai mezzi che intende adottare? "Sembra che Platone - osserva sempre B. Russell nella sua Storia della Filosofia Occidentale - non si renda conto, però, che l'accettazione obbligatoria di tali miti è incompatibile con la filosofia e implica un genere d'educazione che impedisce lo sviluppo dell'intelligenza".

L'adozione di credenze buone e utili innesca inevitabilmente un processo perverso; le credenze infatti non sono in grado di camminare con le proprie gambe, grazie cioè alla loro forza esplicativa della realtà cosmica ed umana, ma hanno continuamente bisogno di essere difese dai mille attacchi che potrebbero metterle in crisi: interpretazioni alternative della realtà, nuove conoscenze, nuove impostazioni filosofiche, osservazioni razionali su eventuali contraddittorietà esistenti a livello delle credenze stesse, ecc. . La difesa dai suddetti attacchi, che minano con il dubbio la forza trascinante delle credenze, non può che seguire due strategie principali. Una consiste nell'attivare una specie di sistema immunitario che combatta le contestazioni sia elaborando complesse argomentazioni pseudo-razionali, atte a confutare o almeno a contrastare le critiche, sia screditando direttamente le persone da cui vengono le contestazioni, accusandole come minimo di essere in mala fede, per arrivare nei casi estremi ai roghi, le inquisizioni e i gulag. La seconda strategia invece prende in esame la diffusione attiva e capillare delle credenze mediante il proselitismo e l'indottrinamento.

Se Platone scrivendo La Repubblica, trascinato dall'entusiasmo per il suo progetto di costruzione di una società ideale, non si rendeva forse conto degli effetti perversi che avrebbe creato la difesa della sua "bugia regale", certo non possiamo ignorarli noi oggi dopo aver assistito alla tragedia del comunismo reale. Il progetto di Lenin, che presenta alcune analogie con quello di Platone, dà infatti un'idea concreta di come si possa arrivare in effetti a sacrificare sull'altare di un'ideale di vita e di riforma sociale la libera ricerca intellettuale e addirittura il mondo dell'arte. Le conseguenze catastrofiche che ne sono derivate sono purtroppo sotto gli occhi di tutti.

La cartina di tornasole che rivela una situazione di limitazione delle libertà di pensiero è possibile individuarla nelle categorie di "ortodossia" ed "eresia", sempre presenti nella vita sovietica.



Le religioni del mito


Se il progetto di Platone non risolve ma accentua la contraddizione tra "verità di fede" che sostengono un progetto di vita e ricerca incondizionata della verità, più accettabili sembrano quei sistemi sociali dove esistono religioni basate sul mito: mi riferisco ad esempio alle religioni greche e romane o a quelle delle civiltà dell'America precolombiana.

In esse il mito non rappresenterebbe una "verità di fede", ma lo scenario teatrale di fronte al quale si svolge la commedia/tragedia della vita del singolo e dell'intera comunità. Tale scenario teatrale, che crea l'atmosfera e dà significato alla vita del popolo, non è comunque cristallizzato ma si presta, come ha mostrato Levy-Strauss, ad essere in continuazione ridisegnato partendo dagli elementi base che lo costituiscono.

Il progetto di convivenza sociale, e le categorie di "bene" e di "male" che ne derivano, trova nel mito un potente mezzo di riferimenti simbolici senza creare però dogmatismi e sistemi di pensiero vincolanti.



La predicazione di Gesù


Il progetto di vita che culturalmente è più vicino a noi europei è quello trasmessoci da Gesù. La sua predicazione, che è animata dall'urgente desiderio di trasmettere la "buona novella" e di divulgare il suo progetto di vita e di salvezza, viene condotta con libertà e disinvoltura nei confronti del corpo dottrinario dei dottori della legge.

La rivoluzione, che la sua fede comportava, richiedeva infatti una presa di distanza dal corpo dottrinario dell'ebraismo ufficiale. Gesù comunque ha ugualmente fatto ampio uso dei concetti più radicati nella mentalità della gente a cui parlava: il suo messaggio, per arrivare al cuore delle persone, doveva "incarnarsi" nel linguaggio culturale dell'epoca, doveva far ricorso agli stessi simboli di riferimento culturale, anche se cambiandone spesso o addirittura rivoluzionandone il significato.

La predicazione di Gesù non intende proporre espressamente un sistema "ortodosso" di concepire la realtà, ma al contrario sembra lottare contro i vincoli dell'ortodossia ebraica custodita dai dottori della legge che gli impediscono di far comprendere il contenuto profondo della "buona novella".



S. Paolo e i Padri della Chiesa


Con la morte di Gesù le cose cambiano invece rapidamente. S. Paolo e successivamente i Padri della Chiesa diedero inizio all'elaborazione di una teologia che fra gli obiettivi principali aveva quello di fornire un "supporto dottrinario" alla nuova fede che veniva dalla Palestina. Se in questo lavoro S. Paolo attinse principalmente alla cultura di natura religiosa ebraica, i Padri della Chiesa viceversa attinsero a piene mani alla filosofia greca (in particolare a quella platonica).

A supporto della nuova fede fu adottata una visione del mondo che era in perfetta armonia con le più avanzate e plausibili ricerche filosofiche del momento (lo stoicismo e il neo-platonismo) non facendo quindi sorgere il problema dell'onestà intellettuale, ma purtroppo creandone i presupposti.

In questo periodo, in cui vengono poste le basi teologiche fondamentali su cui poggerà nei secoli successivi il cristianesimo, non possono ancora esistere grosse contraddizioni tra la ricerca filosofica della realtà e i contenuti dottrinari della emergente religione, anzi la filosofia viene vista come "ancilla fidei". L'uomo di pensiero e al tempo stesso credente non vive dilemmi e contraddizioni: la filosofia s'inchina alla teologia giudicandola più adeguata a svelare i misteri che avvolgono il mondo e l'esistenza umana. E' questo un momento magico: è la Chiesa stessa che nella realtà sociale del decadente impero romano diventa artefice delle punte più avanzate della ricerca filosofica indirizzando la cultura stessa dell'epoca. E' questo il periodo di S. Agostino e di S. Ambrogio.



Il cristianesimo nel medioevo


Dopo gli anni bui dell'alto medioevo si rivive un altro grande momento di crescita culturale indirizzata e sostenuta dalla Chiesa con la filosofia/teologia di S. Tommaso. E' anche questo un periodo dove l'intellettuale può vivere la sua ricerca di verità e conoscenza in completa armonia con la propria religione, sia esso un filosofo oppure un poeta (Dante, Petrarca, Milton, ecc.). Purtroppo però questo sembra essere anche l'ultimo periodo d'oro in cui un'armonia tra "verità di fede" e libera ricerca intellettuale ha potuto essere concretamente vissuta. A tale periodo va tutta la mia nostalgia per una sintesi che non ci è data nell'era attuale.


Bisogna osservare comunque che l'escalation di ricerca teologica e la costruzione con la "Summa Theologica" di S. Tommaso di un monumentale sistema di pensiero non giovò molto al messaggio di fede originario di Gesù, anzi a mio parere lo appannò al punto tale che un suo riscatto ha potuto venire solo dai margini del cristianesimo di quell'epoca. Un poverello di Assisi, lontano da dispute dottrinarie, seppe infatti rivitalizzare e arricchire con l'esempio e la predicazione il lontano messaggio di fede di Gesù, realizzando in concreto quello che interi volumi di teologia non erano riusciti a fare nemmeno in minima parte.

Non a caso l'Ordine dei Francescani ha poi adottato come filosofia di riferimento il pensiero di Duns Scoto che, invece di ricercare l'armonia tra ragione e "verità di fede", sacrificando inevitabilmente l'una all'altra, ha preferito accettarne la separazione difendendo sia l'autonomia della prassi religiosa che quella della ricerca intellettuale.

Duns Scoto distingue nettamente infatti nella sua filosofia il teoretico dal pratico ove il primo è "il dominio della necessità, della dimostrazione razionale e della scienza", mentre il secondo è "il dominio della libertà, quindi dell'impossibilità di ogni dimostrazione, e della fede" (le citazioni suddette e quelle che seguiranno provengono dalla presentazione del filosofo da parte di N. Abbagnano e G. Fornero nel loro testo di storia della filosofia). La fede è cioè per Duns Scoto "regola di azione", "regola pratica senza fondamento necessario". "La fede non ha nulla a che fare con la scienza secondo Duns: essa appartiene interamente al dominio pratico. (Opera di Oxford, prol., q. 3). Tutto ciò che trascende i limiti della ragione umana non è più scienza, ma azione o conoscenza pratica: concerne il fine cui l'uomo deve tendere ..., non la scienza." ... "La metafisica è la scienza teoretica per eccellenza, la teologia è per eccellenza la scienza pratica. Scopo della teologia difatti non è fugare l'ignoranza, ma persuadere l'uomo ad agire per la propria salvezza. ... Anche quelle verità che apparentemente non hanno riferimento all'azione, per es.: Dio è trino e il Padre genera il Figlio sono in realtà pratiche.".

"Duns ritiene impossibile dimostrare tutti gli attributi di Dio, ed anche, come vedremo, l'immortalità dell'anima. Con ciò la certezza di queste proposizioni diventa pratica, cioè fondata esclusivamente sulla loro libera accettazione da parte dell'uomo. L'ideale aristotelico della scienza dimostrativa conduce qui a respingere definitivamente fuori dell'ambito della ricerca filosofica capisaldi fondamentali della religione cattolica.".



Il cristianesimo all'inizio dell'impresa scientifica


L'avvento nel sedicesimo secolo del metodo scientifico e la crescita culturale verificatasi nel periodo dell'umanesimo e del rinascimento portano alle prime serie spinte centrifughe facendo vacillare l'imponente costruzione dottrinaria del periodo della Scolastica che aveva avocato a sé, nonostante gli insegnamenti di Duns Scoto, il ruolo di dire ciò che è giusto e ciò che è errato in ogni disciplina del sapere umano (con l'Inquisizione sempre vigile).


Il momento dello scontro non doveva tardare molto: siamo al caso Galilei. Di quella disputa emblematica, su cui tuttora si ritorna sovente (non ultimo il Papa), vorrei ricordare solo il valore universale che riveste sulla questione dell'accordo tra scienza e "verità di fede". Con Galilei comincia, nel mondo occidentale e cristiano, la lenta e progressiva separazione tra le verità religiose e quelle della elaborazione filosofica e scientifica che passa attraverso posizioni come quella di I. Newton, che legittima una ricerca della realtà indipendente dalla Rivelazione, asserendo che la scienza scopre le leggi che Dio ha dato al mondo, per arrivare fino all'Illuminismo che rivendica la piena autonomia di pensiero nella conoscenza della realtà. Un posto particolare occupa in questo processo di separazione la ricerca filosofica di Spinoza.



Spinoza


La filosofia di Spinoza affronta in maniera originale e moderna i temi dibattuti nel diciassettesimo secolo, uscendo dai canoni tipici dell'epoca e anticipando molte delle tematiche filosofiche, politiche e religiose che si sono sviluppate solo in questo secolo. E' comprensibile che le sue idee, al di fuori della tollerante Olanda, siano state allora duramente contestate e condannate.

Nel suo "Trattato teologico - politico" affronta con estrema chiarezza il dilemma tra fede (Spinoza usa il termine fede in un'accezione molto vicina a quella che intendo io quando uso il corsivo) e conoscenza affermando che esso non deve e non può esistere in quanto la fede non ha contenuti conoscitivi: fede è sia "obbedienza" alla legge dell'amore per il prossimo sia "opere" di carità e giustizia. Con la filosofia, afferma, l'uomo cerca le risposte per una comprensione della realtà e in tale ricerca deve essere libero da ogni vincolo.

Ecco alcune sue frasi molto significative in proposito tratte dall'edizione della Nuova Italia Editrice, Firenze 1985:"La Scrittura insegna che tutta la legge si compendia nell'amore per il prossimo. Perciò, non c'è alcuno che possa negare che è veramente obbediente e beato secondo la legge colui che, per precetto divino, ama il prossimo suo come se stesso; ... E la conseguenza è questa: che noi, come la Scrittura stessa ci insegna, a nient'altro siamo tenuti a credere che a ciò che è assolutamente necessario per ottemperare al ricordato precetto."

"... poco importa per la fede ricercare se Dio, modello della vera vita, sia fuoco, spirito, luce, pensiero, ecc.; ... queste questioni sono indifferenti per la fede, per cui ciascuno può risolverle come crede." (pag. 252)

"... allo stesso modo con cui un tempo la fede fu rivelata e scritta secondo la mentalità e le opinioni dei Profeti e del volgo di quei tempi, parimenti anche ora ciascuno è libero di conformare la fede alle proprie opinioni, in modo ch'essa possa essere abbracciata senza alcuna ripugnanza della mente e senza esitazione;" (pag. 253)

"Scopo della filosofia è, infatti, niente altro che la verità, mentre scopo della fede, come anche troppo dimostrammo, nient'altro è che l'obbedienza e la pietà. ... Per conseguenza la fede concede la massima libertà di filosofare, in modo che ciascuno possa, senza commettere alcun crimine, pensare, intorno ad ogni cosa, nella maniera ch'egli crede più conveniente." (pag. 254)

Le parole di Spinoza, scritte qualche decennio dopo il processo a Galilei, non furono tuttavia in grado di sanare la frattura apertasi in tale disputa, non solo perché non recepite dalla mentalità di allora ma soprattutto perché combattute come pericolose dal potere politico e religioso. La conseguenza inevitabile è stata che da allora la separazione tra il pensiero scientifico-filosofico più avanzato e quello teologico è stata quasi totale perchè inevitabilmente in conflitto. L'uomo di religione cristiana si è trovato quindi a vivere una vita intellettuale di carattere schizofrenico, mentre le varie Chiese cristiane hanno assunto un atteggiamento di diffidenza, di fronte allo sviluppo di discipline scientifiche e filosofiche cresciute in maniera indipendente dalle categorie religiose, fino ad arrivare a prese di posizione apertamente oscurantiste. Per superare il dilemma l'uomo di pensiero e di fede, che voleva rimanere all'interno del movimento religioso, ha dovuto affannarsi faticosamente dietro a contorte interpretazioni delle "verità di fede" per poter salvare "capre e cavoli". Ma ogni volta è stata una squallida vicenda quale quella della contrapposizione tra creazionismo ed evoluzionismo.

Non sono mancati comunque in ogni epoca fino ai giorni nostri onesti tentativi di riproporre, anche se partendo da diverse impostazioni di pensiero, l'approccio indicato da Spinoza.



I. Kant


L'analisi critica che Kant affronta sui fondamenti del sapere, della morale e dell'esperienza estetica ci aiuta a focalizzare meglio i contorni del nostro dilemma e a fornire al tempo stesso elementi interessanti per una sua soluzione. I pilastri tradizionali del discorso religioso - l'immortalità dell'anima e l'esistenza di Dio - non possono essere frutto, afferma infatti Kant, di un'attività teoretica della Ragion pura, ma sono dei postulati della Ragion pratica, postulati che comunque, ci tiene a precisare, non possono e al tempo stesso non debbono essere pensati come oggetto di conoscenza. Kant teme infatti che si sia tentati di far entrare dalla finestra ciò che non può assolutamente passare dalla porta principale.

E' interessante inoltre notare che un altro pilastro della visione religiosa del mondo - il finalismo che viene intuito presente in natura - viene comunque visto da Kant, nella Critica del giudizio, come frutto di un'altra facoltà umana: il sentimento. E' grazie a questa facoltà che l'uomo fa infatti esperienza, fra l'altro, della finalità del reale mediante il giudizio teleologico; ma anche qui Kant ribadisce che il giudizio teleologico non ha comunque alcun valore teoretico. Sempre nella Critica del giudizio Kant fa derivare infine dalla facoltà estetica anche un'altra esperienza umana che è alla base del fenomeno religioso: la percezione del sublime. La descrizione che Kant fa della percezione del sublime ricorda l'esperienza primordiale del sacro; Kant non usa mai questo termine ma le parole che impiega e gli esempi che riporta sono incredibilmente simili alla descrizione che, per esempio, fa R. Otto del numinoso nella sua opera, Il Sacro, già citata.

Il contributo di Kant al nostro problema può quindi essere sintetizzato nella separazione netta che egli opera tra l'attività teoretica della ragione e l'attività della ragion pratica e del Giudizio e nella difesa della prima da interferenze e condizionamenti da parte delle altre due. Anche se in seno ad una differente costruzione filosofica la suddetta separazione ricorda quella altrettanto netta e chiara, già ricordata, operata da Duns Scoto tra l'attività speculativa e quella pratica.

Il pensiero di Kant introduce un importante elemento di novità rispetto ai pensatori precedenti e cioè che alcune basilari credenze religiose scaturiscono non solo da un'attività della ragion pratica ma anche dalla facoltà estetica.




II periodo positivista e la reazione antipositivista


Durante il periodo positivista ci sono stati vari contributi da parte del mondo intellettuale dei non credenti per instaurare un dialogo costruttivo con la religione cercando di superare il conflitto tra verità scientifiche e verità teologiche. Ricorderei a questo proposito il buon senso che è dietro all'approccio dell'empirista inglese J. S. Mill, che nei suoi "Saggi sulla religione" suggerisce: "Allorché la ragione viene educata rigorosamente, l'immaginazione (il corsivo è mio) puo' tranquillamente seguire il suo corso, e fare del suo meglio per rendere la vita piacevole ed amabile, all'interno del suo fortilizio, fidando sulle fortificazioni erette e difese dalla ragione intorno ai suoi confini esterni." approvando tutte quelle "speranze sovrannaturali, di genere e grado tali da poter venire approvate da quel che io ho chiamato scetticismo razionale".

Parallelamente lodevoli sforzi sono stati esercitati anche in ambito religioso, con lo sviluppo nel mondo protestante della teologia liberale e del suo metodo storico-critico, per dare plausibilità alle verità religiose e poterle conciliare con la cultura del proprio tempo.

In entrambi i casi comunque si osserva un comune presupposto di fondo: che le verità religiose abbiano delle valenze conoscitive e che la Rivelazione cristiana sia una rivelazione di verità metafisiche. Come siamo lontani da Spinoza!

Giudico questo approccio, da come si può dedurre dalle pagine che precedono, errato e fuorviante: esso può solo mascherare ed ammorbidire il nostro dilemma ma non scioglierlo. Già da molti secoli Duns Scoto aveva chiarito che le scienze teologiche non possono essere considerate discipline teoretiche ma pratiche.

La reazione a tale impostazione non ha tardato a farsi sentire. La corrente filosofica positivista è stata presto contestata dalle nuove correnti dello spiritualismo, dell'idealismo e dell'esistenzialismo mentre in ambito teologico si sono sviluppate le correnti della teologia dialettica, di quella radicale (la cosiddetta teologia della "morte di Dio") e di quella della speranza.

Queste tre correnti teologiche hanno un filo conduttore comune: i contenuti della fede non possono essere oggetto di ricerca razionale, la fede non appartiene al regno della speculazione filosofica e tanto meno della ricerca scientifica ma ad un'altra dimensione.

La teologia dialettica, senza chiarire quale sia esattamente tale dimensione, afferma con fermezza che Dio non può essere raggiunto dalla ragione, dalla filosofia o dalla cultura perchè Egli è il totalmente Altro, è il Dio sconosciuto, che non ha nulla a che fare con il Dio Idolo della teologia liberale. La fede, dice K. Barth, principale esponente della teologia dialettica, cessa di essere fede quando cerca supporti razionali e Dio non potrà mai essere oggetto di studio.

Con tale impostazione Barth, che segue le orme del cristianesimo tragico di Kierkegaard, ha comunque avuto il merito di togliere la teologia dall'ambito delle scienze teoretiche spingendo gli studi teologici successivi alla ricerca della dimensione all'interno della quale si può parlare del totalmente Altro e ad indagare sul perchè non si può parlare di Dio in termini positivi, che crea solamente degli Idoli, ma in termini negativi, come Dio sconosciuto.

La dimensione nella quale si può parlare di Dio è quella del futuro, del non-ancora, rispondono i teologi della speranza; il totalmente Altro deve intendersi come il totalmente Nuovo. Un Dio che sia effettivamente Nuovo non può che essere di conseguenza un Dio Sconosciuto, un Dio Nascosto, che non può essere cioè né descritto né confuso con l'esistente. Il mistero che avvolge Dio non è dovuto ad una nostra limitata conoscenza dell'esistente ma alla imprevedibile creatività nascosta nelle pieghe del futuro. Nella teologia della speranza non c'è attesa passiva ma partecipazione attiva dell'uomo, animato dai suoi progetti di riscatto e liberazione, alla costruzione del mondo di domani.

Se di Dio si può parlare solo in termini negativi, di ciò che non è, allora non ha senso parlarne in termini positivi, come ha fatto la teologia nel passato, perché si creerebbero solamente delle immagini concettuali da idolatrare celando ai nostri occhi il Nuovo che Dio rappresenta. Tali immagini concettuali è meglio che muoiano, dicono i teologi della "morte di Dio".

Tra gli esponenti più interessanti, ai fini del nostro discorso, del rinnovamento del pensiero teologico nel ventesimo secolo, vorrei soffermarmi brevemente su Bultmann, Moltmann e Balducci.



R. Bultmann, J. Moltmann, E. Balducci


Il dilemma "verità di fede"/conoscenza è più sentito oggi rispetto a una volta per il fatto che la comprensione della realtà si basa per l'uomo d'oggi su un paradigma sensibilmente diverso da quello che era alla base delle verità teologiche espresse nel corso dei secoli. Non è quindi questione di divergenze su singoli argomenti avulsi da un'interpretazione d'insieme. Si verifica oggi e in scala ben più globale e profonda la contrapposizione che ha descritto Galilei nel suo "Dialogo sui massimi sistemi". Non che il paradigma odierno sia quello giusto o addirittura quello definitivo, ci auguriamo anzi che in futuro ce ne sia un altro più adeguato alla descrizione della realtà, ma per carità questo non giustifica un ritorno a quello che si è già rilevato inadeguato.

Conscio del cambiamento di paradigma avvenuto con l'affermarsi del pensiero scientifico, cambiamento acceleratosi con la teoria dell'evoluzione di Darwin, il teologo protestante R. Bultmann affronta con coraggio il nostro dilemma. Per salvare l'Annunzio (Kerigma) nella sua purezza già nel 1926 (nel suo saggio "Gesù") affermava: "Tutta la rappresentazione del mondo, presupposta nella predicazione di Gesù e in generale del nuovo testamento, è mitologica; e cioè: la rappresentazione del mondo ripartito in cielo, terra e inferno; l'idea di un intervento di forze soprannaturali nel corso della storia; la rappresentazione dei miracoli e, in particolare, di quello relativo all'intervento di forze soprannaturali nella vita intima dell'anima; infine, l'idea secondo cui l'uomo può essere posseduto da spiriti malvagi, tentato e corrotto dal demonio."

Nel 1941 nel saggio "Nuovo testamento e teologia" Bultmann diceva esplicitamente: "L'annuncio cristiano di oggi si trova posto di fronte a questo problema: se, nell'esigere fede dall'uomo, possa pretendere da questi l'accettazione di una sorpassata visione mitica del mondo." E piu' avanti, sempre nello stesso saggio, precisava:"La visione mitica del mondo come tale non è affatto specificamente cristiana, ma è semplicemente la visione che del mondo si aveva in un'epoca remota e che non aveva ancora ricevuto l'impronta del pensiero scientifico."

Bultmann comunque non intende tanto sostituire una visione del mondo sorpassata con una più aderente alle conoscenze dell'uomo moderno, quanto piuttosto far emergere il significato profondo del messaggio cristiano mediante la demitizzazione. Ma quale è il significato celato dietro le concezioni mitologiche? Nella risposta che dà Bultmann ecco apparire la dimensione del "futuro" con la quale si deve confrontare l'esistenza umana. "L'esistenzialismo [per Bultmann] ... non fa che esprimere concettualmente ciò che il mito ha inteso comunicare in forma simbolica relativa alla cultura del tempo cui appartiene. Esso consente infatti di considerare l'esistenza come un modo d'essere completamente diverso da quello delle altre cose del mondo, di riconoscere la storicità dell'esistenza stessa in quanto si realizza nel tempo attraverso scelte o decisioni responsabili che le aprono la via del futuro" (Abbagnano, Fornero - Filosofi e filosofie nella storia, Vol. 3, Paravia, pag. 619).

Se Bultmann ha trovato nell'approccio esistenzialista, di Heidegger in particolare, strumenti preziosi per comprendere meglio l'Annuncio cristiano, Moltmann trae da E. Bloch le categorie basilari della sua teologia della speranza. Il fulcro intorno a cui si muove la sua ricerca è anche per lui il problema del futuro, che nel cristianesimo emerge nella visione escatologica. Il dilemma fede/conoscenza viene affrontato separando chiaramente il dominio a cui esse appartengono seguendo il solco tracciato da Duns Scoto. "La verità delle proposizioni dottrinali - dice J. Moltmann - risulta dalla possibilità di controllare che corrispondano alla realtà esistente di cui si può avere esperienza ... , le parole di speranza della promessa devono [invece] essere in contraddizione con la presente realtà empirica: Esse non sono il risultato di esperienze bensì la condizione perché nuove esperienze siano possibili. Esse non tendono a gettar luce sulla realtà esistente ma su quella veniente. Non intendono dare un'immagine mentale della realtà esistente, bensì condurre quest'ultima al cambiamento promesso e sperato. ... Il presente e il futuro, l'esperienza e la speranza vengono a contraddirsi reciprocamente nell'escatologia cristiana la quale non conduce l'uomo a conformarsi e accordarsi alla realtà data, ma lo coinvolge nel conflitto tra speranza ed esperienza." (citazione riportata da: Reale, Antiseri - Il pensiero occidentale dalle origini a oggi, Vol. 3 - Ed. La Scuola). E' interessante notare come dalle parole sopra riportate venga indirettamente un chiarimento all'osservazione di K. Barth che esista una differenza infinita, anzi un'opposizione tra ragione e fede: è la differenza incolmabile che separa e contrappone il presente e il futuro, sembra rispondere Moltmann.

Più recentemente Padre E. Balducci ha espresso concetti paralleli a quelli dei teologi esaminati in questo paragrafo parlando della necessità di "spogliarsi dei vecchi involucri dogmatici, rituali ed etici". In un'intervista concessa nel 1992 a C. Formenti per l'inserto Sette del Corriere della Sera osservava: "Il cristianesimo è attraversato da una scissione: in quanto profezia messianica, esso predice l'avvento di un uomo che non è mai stato, un uomo futuro che realizzerà quelle possibilità che non hanno ancora trovato attuazione. ... In questo senso la fede cristiana non è una <religione>. Essa si è trasformata in religione in quanto ha assunto delle forme culturali particolaristiche, che coincidono con la storia dell'Occidente." Altrove sempre nella stessa intervista E. Balducci fa notare che "Le espressioni simboliche, le tradizioni etiche, la visione del mondo incorporate nel cristianesimo sono proprie di una <isola di storia> - l'Occidente - che solo in questi tempi si sta accorgendo di essere tale."

Queste nuove correnti teologiche del novecento operano, all'interno del mondo religioso stesso, una svolta decisiva passando dal classico concetto ontologico della divinità a quello incentrato sul nuovo che verrà e sul futuro che lo disvelerà. Se la divinità non è oggetto di conoscenza, non potendo essere ricercata sul piano ontologico (la teologia della "morte di Dio" sancisce formalmente la rinuncia a descrivere Dio in termini conoscitivi), essa, se si vuole comunque mantenere l'uso del termine divinità, può essere però trovata nel regno del possibile, cioè non nell'essere ma in ciò che sarà. Come conseguenza di questa svolta perde di significato, anche all'interno del mondo teologico (soprattutto protestante), il concetto di "verità religiosa" e rimane solo più quello di fede; questa però oscilla a seconda dei teologi tra due possibili interpretazioni: fede che il futuro, incomprensibile e inconoscibile, non possa tradire le aspettative dell'uomo che attende impotente e timoroso e fede nella capacità umana di poter/voler riscattarsi dai limiti dell'esistente assumendosi la responsabilità del nuovo che verrà. L'accezione che ho dato fin dall'inizio al termine fede è più vicina a questo secondo atteggiamento che al primo, che è meno fecondo sul piano della prassi (si veda più innanzi al capitolo 8 il paragrafo relativo all'ortoprassi).



J. Huxley, E. Fromm, E Bloch


Julian Huxley ha espresso in un suo libro "Religion without revelation" il progetto di una religione che non ponga l'uomo moderno in conflitto con le sue conquiste culturali, in particolar modo con il nuovo paradigma evolutivo. E' anzi da tale paradigma che trae forza la sua sincera fede nell'impegno di ogni uomo nel costruire un mondo migliore.

L'autonomia della fede dalla conoscenza viene ribadita anche da E. Fromm che così ricostruisce l'emergere del nostro dilemma nella civiltà occidentale: "Fin dai primordi della sua storia, l'uomo si è sforzato di capire le forze della natura e di imparare a servirsene, formulando teorie ed escogitando metodi che divennero parte integrante della sua religione. ... Col progredire della scienza e della tecnologia, si avverte sempre meno il bisogno di affidare alla religione un compito che le appartiene soltanto per ragioni storiche. La religione occidentale però ha fatto di questo aspetto magico scientifico una parte integrante del proprio sistema, e perciò si è messa in aperto contrasto con il progresso del sapere umano. ... Le polemiche antireligiose dell'illuminismo erano dirette per lo più non contro la religione in sé ma contro la pretesa che si dovessero accettare le sue dottrine scientifiche come dogma di fede. Recentemente c'è stata una tendenza, condivisa da scienziati e scrittori di cose religiose, a sostenere che, in seguito alle ultime ipotesi e scoperte delle scienze naturali, il contrasto è meno grande di quanto non fosse anche solo un mezzo secolo fa. ... Pare a me che in questo tipo di argomentazione si perda di vista il problema centrale. Anche se si arrivasse al punto di poter dire che le dottrine bibliche sulla creazione del mondo, per esempio, rappresentano un'ipotesi scientifica non meno pluasibile di tante altre, avremmo semplicemente rivalutato l'aspetto scientifico della religione ebraico-cristiana, non già il suo aspetto propriamente religioso. Dopo tutte queste polemiche resta pur sempre vero che ciò che conta è l'anima dell'uomo; le ipotesi sul mondo naturale e sulla sua creazione non c'entrano per nulla." (da Psicanalisi e religione - Mondadori, 1987 - pagg. 88/91). Partendo da questa analisi E. Fromm mette più avanti in evidenza il pericolo di idolatria che affiora immancabilmente tutte le volte che si antepongono le dottrine alla condotta di vita. "Non sarebbe ora di smettere di disputare sull'esistenza di Dio, e di unirci invece per smascherare le varie forme di idolatria contemporanea? ... Non importa che si appartenga a una delle vecchie religioni , o che si creda alla necessità di una nuova, o che si auspichi una religione dell'irreligione, o che si speri nella continuazione della tradizione ebraico-cristiana; importa che si badi alla sostanza e non all'involucro, all'esperienza e non alle parole, all'uomo e non alle chiese. Questo dovrebbe bastare a unirci in una recisa negazione dell'idolatria: e in essa, più facilmente che in qualunque definizione teologica di Dio, potremmo forse trovare una fede [il corsivo è mio] comune, e certamente un po' di umiltà e d'amore fraterno." (ibid. pagg. 99/100).

Siamo anche qui in perfetta armonia con quella lunga corrente che, per rimanere nel campo del pensiero occidentale, collega, pur con approcci filosofici differenti, Duns Scoto, a G. Galilei, Spinoza, gli illuministi, W. James, Bultmann, J. Huxley.

Una filosofia tutta incentrata sulla dimensione del futuro è anche quella di E. Bloch, che vede nello spazio utopico e nel non-ancora la dimensione dominante dell'esistenza umana. La tensione verso il futuro, che si esprime come progettualità e speranza, viene vista da Bloch all'origine del sentimento religioso. La sua impostazione in effetti ha ispirato direttamente, come già accennato precedentemente, i teologi della speranza e quelli della liberazione. Bloch inoltre non considerando il futuro, né da un punto di vista teorico né da un punto di vista pratico, chiuso, lotta contro ogni dogmatismo che pretenda di guidare una volta per tutte il futuro corso degli eventi, con la stessa determinazione con cui Fromm ha lottato contro l'idolatria. Entrambi cioè, anche se con parole differenti, difendono l'aspetto creativo nascosto nel non-ancora.



Jacques Monod


Il biologo francese affronta con estrema chiarezza, nel capitolo finale "Il Regno e le tenebre" del suo famoso saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea "Il Caso e la Necessità", il nostro dilemma ponendolo nella prospettiva più ampia della contrapposizione tra valori morali e conoscenza. Il dilemma assume agli occhi di Monod accenti drammatici, tanto da farlo parlare di "male dell'anima", di "profonda frattura" e di tormento per la coscienza dell'uomo moderno. Ma quali sono le considerazioni che lo portano a tale preoccupante diagnosi?

I valori morali, dice Monod, si sono sviluppati e sono diventati maturi nei corso dei secoli grazie all'antica alleanza animistica dell'Uomo con la Natura che si è espressa nei miti, nelle religioni e in quelle filosofie che propongono che i fenomeni naturali debbano essere interpretati allo stesso modo dell'attività umana soggettiva, cosciente e proiettiva. Detto in altri termini, l'antica alleanza si è manifestata concretamente mediante ontogenie (sia mitiche che metafisiche) "esplicative e normative insieme", cioè mediante storie relative all'origine del mondo, dell'uomo e delle società che sono contemporaneamente fonte di conoscenza e di valori etici.

Da Galileo ai giorni nostri l'antica alleanza si è però infranta in seguito all'adozione con il metodo scientifico del postulato dell'oggettività della Natura, che rifiuta in modo sistematico "la possibilità di pervenire ad una conoscenza vera mediante qualsiasi interpretazione dei fenomeni in termini di cause finali, cioè di progetto". Mentre l'animismo "non vuole, né d'altronde può, stabilire una linea di demarcazione assoluta tra proposizioni di conoscenza e giudizi di valore; infatti se si suppone che, nell'Universo sia presente un'intenzione, sia pur accuratamente nascosta, che senso avrebbe una simile distinzione?", in un sistema oggettivo invece "è bandita ogni confusione tra conoscenza e valori" (concetto espresso dalla cosiddetta legge di Hume).

Con la caduta dell'antica alleanza, dice Monod, diventa urgente porre nuove basi per l'etica che rimane invece oggi "disperatamente attaccata alla tradizione animistica", nonostante che sia stata abbandonata come fonte di conoscenza e di verità. "La frattura - commenta Monod - è così profonda, la menzogna tanto evidente, da tormentare e straziare la coscienza di chiunque sia provvisto di un po' di cultura, dotato di un po' di intelligenza e posseduto da un'ansia morale che è fonte di ogni creazione. Vale a dire di tutti coloro, fra gli uomini, che sono e saranno responsabili della società e della cultura nella loro evoluzione. Il male dell'anima moderna è questa menzogna che alligna alla radice dell'essere morale e sociale."

Dove trova J. Monod il rimedio? Nel postulato stesso di oggettività che costituisce per l'uomo moderno per prima cosa una scelta etica, l'etica della conoscenza, con la quale si impone una regola morale ed una severa disciplina: quella di evitare "qualsiasi confusione tra giudizi di conoscenza e giudizi di valore" in maniera che ogni discorso, o azione, debba "essere considerato significativo, autentico, solo se oppure nella misura in cui, esprime e conserva la distinzione delle due categorie che associa". Differentemente dalle "etiche animistiche, che si vogliono tutte fondate sulla conoscenza di leggi immanenti, religiose o naturali, che si imporrebbero all'uomo", con l'etica della conoscenza l'uomo impone a sé stesso, con un atteggiamento umanistico, le regole morali che ha scelto di seguire per realizzare il suo progetto: "quello di autenticità di qualsiasi discorso o di qualsiasi azione".

La scelta etica che fa Monod, di perseguire una conoscenza autentica, ricorda la tensione morale che ha ispirato la vita e le opere di Spinoza. Nel suo "Trattato sull'emendazione dell'intelletto" Spinoza espone infatti il proposito di "guarire l'intelletto, ... , di purificarlo perché conosca felicemente le cose, senza errore e quanto meglio possibile", allo scopo di pervenire "alla somma perfezione umana" consistente nella "conoscenza dell'unione che ha la mente con tutta la natura". Per camminare con onestà intellettuale verso una vera conoscenza Spinoza considera indispensabile rimuovere i molti pregiudizi che affliggono il comune modo di pensare. Come mostra nell'Appendice alla prima parte dell'Ethica, la maggior parte dei pregiudizi deriva dal considerare che la natura abbia un fine prestabilito e che i concetti di bene e di male siano degli attributi delle cose. A distanza di tre secoli Monod ci fa notare come proprio tali pregiudizi siano tuttora alla base dei valori morali del mondo d'oggi, ancorati come si è appena detto alla tradizione animistica.

L'etica della conoscenza di Monod e di Spinoza si muove sulla scia di una tradizione di pensiero molto antica: mi viene da pensare ad autori come Epicuro o Lucrezio in occidente o all'insegnamento di Buddha in oriente.



Gianni Vattimo


Ha pubblicato recentemente un interessante e piacevole libro (Credere di credere, Garzanti, 1996), scritto in forma autobiografica e in prima persona, sul tema del rapporto tra ricerca filosofica e religione e che al tempo stesso tocca i punti principali della sua riflessione filosofica.

Il filo conduttore del libro, che si dipana alla luce del moderno pensiero ermeneutico, è infatti l'ontologia della debolezza, che prende progressivamente le distanze da quella metafisica che ritiene che ci sia una verità oggettiva dell'essere. In campo religioso il percorso del debolismo, nella convinzione che la credenza in strutture metafisiche oggettive nasconda per sua natura un atteggiamento violento (nella scia degli studi di René Girard) e diventi fatalmente "superstizione e vera e propria idolatria", assume le forme della secolarizzazione, caratterizzata dall'interpretazione desacralizzante delle credenze e del messaggio religioso (Dio, Sacramenti, Valori Morali), secolarizzazione che Vattimo vede come fedele interpretazione dell'insegnamento di Cristo e che trova simboleggiata nel mistero dell'Incarnazione.

Questa secolarizzazione, questa depurazione progressiva della religione dalle conoscenze teoretiche, dalle verità ontologiche trova un suo limite (così dice Vattimo, ma io preferirei usare il termine compimento) nella carità (carità nella quale mi sembra di scorgere molte delle caratteristiche della fede come intesa in questo scritto). La carità, come punto di arrivo della secolarizzazione, costituisce inoltre per Vattimo l'elemento guida di una morale che, depuratasi degli elementi eteronomi, raggiunge una completa autonomia. Detto in altre parole il processo di secolarizzazione educa l'uomo a fare progressivamente a meno di verità metafisiche e di morali eteronome, cioè di Dio, per ritrovare se stesso guidato solo da una morale autonoma, rappresentata appunto dal principio di carità, "carità, che - dice appunto Vattimo al termine del suo scritto - è destinata a rimanere anche quando la fede e la speranza non saranno più necessarie, una volta realizzato completamente il regno di Dio". Vattimo insiste infatti più di una volta sullo stretto legame che esiste tra le verità della metafisica, e dell'insegnamento dogmatico religioso che su di esse tradizionalmente si basa, e il dogmatismo morale, che appunto "pretende di fondarsi sulla natura eterna delle cose". Questo stretto legame sarebbe appunto all'origine della concezione eteronoma della morale. La secolarizzazione avrebbe quindi l'importante ruolo di spingere progressivamente la morale da posizioni eteronome a posizioni sempre più autonome. Queste osservazioni di Vattimo implicano, a mio parere, non solo che le verità metafisiche alimentano inevitabilmente atteggiamenti morali eteronomi ma che viceversa posizioni morali eteronome sono certamente la spia di adesione a verità metafisiche.

Vattimo sembra affermare inoltre esplicitamente, con giusta coerenza con la sua impostazione, la priorità della prassi sulla verità teologica quando invita a considerare la carità come essenza della rivelazione, lasciando tutto il resto "alla non definitività delle diverse esperienze storiche, anche delle mitologie che di volta in volta sono apparse come impegnative per le singole umanità storiche." (pag. 78). Altrove, sempre su questo specifico tema, Vattimo osserva che purtroppo invece i "molti contrasti che hanno caratterizzato la vita della Chiesa nella modernità .... si sono sviluppati intorno alla difesa della dottrina autentica che è sempre quella più antica; e, più in concreto, della difesa di aspetti della dottrina e della pratica che, palesemente, rispecchiavano il legame con la cultura di un certo mondo storico, considerata erroneamente come l'unica conforme all'insegnamento evangelico." (pag. 48).

Sembra, infine, anche affermare il carattere prettamente personale delle motivazioni che portano un individuo ad aderire ad una prassi religiosa, senza dover necessariamente aderire ad un Credo ufficiale, quando dice che "l'interpretazione kenotica degli articoli di fede va di pari passo con la vita di ciascuno, con l'impegno a farne principi concretamente incarnati nella propria esistenza, e non può diventare formula".

Quest'ultima osservazione ha dei punti in comune con quanto ho esposto precedentemente (ved. il cap. 5) sul fatto che l'itinerario verso la fede rappresenti sempre un processo personale ed individuale.

A proposito di punti in comune tra la posizione di Vattimo e quanto esposto in questo mio scritto vorrei ricordare qui il cenno che egli ha fatto, nel dibattito sul suo libro organizzato al Centro Teologico Torinese, sul suo atteggiamento di fronte alla Chiesa cattolica. "Non mi venga chiesto, ha detto, di convertirmi ad una piena ortodossia, di rinnegare le mie convinzioni; sia piuttosto la Chiesa a "convertirsi", a saper rompere cioè la rigidità dei suoi schemi e aprirsi ad altre interpretazioni in maniera da poter accettare anche convinzioni come le mie".

Riassumendo, il contributo di Vattimo alle problematiche sollevate dal presente scritto è duplice: il processo di secolarizzazione, che auspica spinto fino al punto che la comunità religiosa è in grado di sopportare senza entrare in crisi, scioglie il nostro dilemma, mentre la priorità data alla carità sulle verità teologiche restituisce valore primario alla prassi, ovverossia alla fede.


Le filosofie e le religioni orientali


Le religioni orientali presentano caratteristiche molto differenti da quelle monoteiste occidentali. Esse infatti in genere rifuggono dal costruire corpi dottrinali a cui i fedeli si debbano uniformare, il concetto di "ortodossia" è praticamente assente, il pensiero teologico è in continua rielaborazione grazie alle differenti "scuole" presenti al loro interno, le immagini e i simboli religiosi sono visti più come frutto di creatività artistica che come tentativo di conoscenza della realtà. Viceversa il loro tentativo di comprensione della realtà è di solito condotto con metodologie tipiche della ricerca filosofica piuttosto che religiosa: non a torto, sotto questo aspetto, si parla spesso delle religioni orientali come di filosofie.

La speculazione filosofica condotta in seno alle religioni orientali è stata molto creativa e originale ed il paradigma di pensiero ad esse sotteso, in particolare in quelle taoiste e buddiste cinesi e giapponesi (zen), dimostra oggi una singolare modernità (vedere gli scritti di F. Capra, D. Hofstadter, E. Fromm, A. Watts).

L'uomo di pensiero orientale non soffre di conseguenza del disagio che affligge l'uomo occidentale. Quest'ultimo si rivolge sempre più a filosofie che lo aiutino e non lo mettano in crisi nel suo lavoro di interpretazione della realtà, portandolo di conseguenza non solo alla rivalutazione di autori come Socrate, Spinoza, ecc., ma anche ad interessarsi sempre più alle visioni filosofiche della realtà elaborate dai pensatori delle religioni orientali.

La religione buddhista in particolare è, fra le religioni orientali, quella in cui è più evidente l'assenza di possibili conflitti tra credenze religiose e conoscenza. L'insegnamento di Buddha è estremamente semplice e coerente: non dobbiamo abbandonarci ad illusioni, ma guardare in faccia la realtà e riconoscere che la vita è sofferenza; chi sceglie il progetto di vita di liberarsi definitivamente dal dolore e raggiungere l'illuminazione deve conoscere e accettare la realtà così come è e mantenere un comportamento saggio. Il buddhismo insegna che la realtà è caratterizzata dalla non sostanzialità (anatta) e dalla impermanenza (anicca) ma non propone questa conoscenza (prajna) come una rivelazione ma solo come constatazione. Altrettanto da un punto di vista morale propone un comportamento caratterizzato da compassione (karuna), gioia altruistica (mudita), benevolenza verso tutti gli esseri (maitri) e equanimità (upekka), indicazioni anche queste che non rappresentano delle norme morali rivelate e indiscutibili ma solo dei consigli giudicati efficaci per raggiungere l'illuminazione. Nel buddhismo, soprattutto in quello più antico, viene volutamente rigettata e prevenuta la costituzione di "verità" religiose, e il Buddha stesso non riveste alcun tratto sacro e tanto meno divino. Pasqualotto G. (in "Illuminismo e Illuminazione - La ragione occidentale e gli insegnamenti del Buddha" pag. 32) in proposito osserva che nel buddhismo "ciò che più conta non è quello che uno pensa, ma come uno agisce: più importanti delle idee in cui uno crede, sono i modi in cui uno si comporta. In definitiva, si potrebbe dire che alla massima <dimmi che cosa pensi e ti dirò chi sei> il Buddha preferisce la massima <mostrami che cosa fai e ti dirò chi sei>. Questa attenzione privilegiata ai comportamenti - che, in termini tecnici, si potrebbe esprimere dicendo che al Buddha interessa più l'ortoprassi che l'ortodossia - emana riflessi forti sul problema dei rapporti tra individui dipendenti da credenze, fedi e ideologie tra loro diverse o addirittura contrastanti: al punto che gli insegnamenti del Buddha potrebbero venir interpretati non come premesse di una dottrina posta accanto alle altre, ma come fonti di un modo di vivere che scorre, a diversi livelli di profondità, all'interno di ogni dottrina.".







7 ASPETTI POSITIVI E NEGATIVI NELLE RELIGIONI


Ricorrenti sono le accuse mosse alle religioni (in genere ci si riferisce a quelle monoteistiche occidentali) di aver fatto nei secoli più male che bene, alimentando guerre, favorendo l'oscurantismo, prendendo posizioni retrograde e contro il progresso, rappresentando oppio per i popoli, fornendo giustificazioni per autoritarismi e oppressioni.

A tali accuse in genere viene risposto che non bisogna dimenticare che grazie alle religioni sono sorte opere caritative ed educative che altrimenti non ci sarebbero state e che l'attenzione verso i poveri e gli oppressi si è sempre tradotta in lotte e concrete azioni per una maggior giustizia sociale.

Sono giustificate a mio parere sia le accuse che le difese; interessante però è analizzare da quali aspetti e componenti delle religioni derivano i lati positivi e da quali quelli negativi.


A mio parere gli aspetti positivi derivano dalla fede nei progetti di rinnovamento e liberazione umana presente in ogni movimento religioso, mentre quelli negativi principalmente dalla sua ideologia, dalla creazione di idoli e dalla mancanza di una vera democrazia interna.


In una religione, soprattutto se altamente organizzata in una Chiesa, il corpo dottrinario (con i suoi dogmi e le sue ortodossie), invece di essere secondario e il più possibile "soft", prende sovente il sopravvento e diventa il fine invece che il mezzo "provvisorio" di sostegno del progetto di vita religioso. Dico "provvisorio" perché l'immagine del mondo, che fa da scenario all'azione (prassi) nella realizzazione delle utopie della fede, è il risultato di un'attività cognitiva e non progettuale, e quindi soggetta a quello "scetticismo creativo" (come lo chiama Edelmann) che ne permette una continua revisione e miglioramento.

Quando le ideologie diventano più importanti dei progetti di vita si creano automaticamente gli idoli a cui tutto può essere sacrificato; il sentimento del sacro in questo caso viene rivolto all'idolo invece che ai valori umani che animano la fede.

Dall'ideologia e dalla convinzione di possedere la Verità nasce l'aggressività verso chi non condivide le stesse idee, l'intolleranza e l'integralismo. Una delle principali conseguenze negative di quest'ultimo è l'atteggiamento diffidente verso una libera e costruttiva attività intellettuale rivolta ad un miglioramento della comprensione della realtà che sfocia in condanne delle quali quella di Galileo è il riferimento storico obbligato.

Per quanto riguarda inoltre l'accusa mossa alle religioni di essere oppio per i popoli si può dire con certezza che ciò non deriva dalla fede nei progetti di liberazione umana, che caso mai spingono all'azione, ma dall'uso strumentale della visione del mondo, che invece di essere di sostegno all'azione viene utilizzata a scopi consolatori.

Le ideologie e le credenze religiose presentano inoltre l'aspetto negativo di essere facilmente strumentalizzate dai poteri politici ed economici per giustificare guerre etniche ed economiche o per rendere le persone passive e timorose dell'autorità.

Non secondario negli aspetti negativi delle religioni è sovente la mancanza di vera democrazia interna che porta ad una autorità religiosa che comanda e detiene la Verità soffocando il fecondo sviluppo del sentimento religioso che viene dalla base.

Bisogna comunque dire che quanto riportato sopra sugli aspetti negativi delle religioni non tocca assolutamente l'insegnamento e l'atteggiamento dei veri maestri di vita, come Gesù, ma principalmente le organizzazioni religiose che ad essi si sono ispirati.



8 PROPOSTE PER UNA VITA DI FEDE SENZA CONTRADDIZIONI NELL'AMBITO DELLE RELIGIONI TRADIZIONALI



non c'è pace tra le nazioni

senza pace tra le religioni

non c'è pace tra le religioni

senza dialogo tra le religioni


non c'è dialogo tra le religioni

senza una ricerca sui fondamenti delle religioni

Hans Kung, Ebraismo



Ortoprassi


Le religioni monoteiste occidentali, diversamente da quelle orientali, hanno dato molta importanza all'ortodossia mettendo in secondo piano l'ortoprassi. Penso al contrario che gli ideali e i progetti di vita che caratterizzano una fede siano essenzialmente dei programmi di azione (prassi) e che ad essi debba essere data importanza primaria: ciò che deve unire una comunità animata da comuni ideali di vita è cioè l'ortoprassi. La visione del mondo e le credenze, che sono alla base delle motivazioni che spingono l'individuo all'azione e a progettare la sua vita individuale e collettiva, non solo sono a mio parere secondarie rispetto all'azione ma possono essere addirittura, in un sano pluralismo, diverse da individuo a individuo, all'interno di una stessa comunità animata da un'azione comune.

La priorità da accordare all'ortoprassi viene chiaramente espressa già nei Vangeli ("Non chi dice Signore, Signore entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio") e in maniera ancora più esplicita, come già accennato precedentemente parlando delle religioni orientali, nell'agire e negli insegnamenti di Buddha. Tale priorità è stata riaffermata recentemente anche da alcuni teologi cattolici quali J. B. Metz, che afferma che il Cristianesimo non deve essere considerato una dottrina da mantenere il più possibile pura ma una prassi da vivere in modo più radicale, o G. Gutiérrez, che sostiene "che la teologia è un atto secondo, un voltarsi indietro ed un ri-flettere che viene dopo l'azione" (da Abbagnano, Fornero - Filosofi e filosofie nella storia, Vol. 3, Paravia, Torino). Anche E. Schillebeeckx "richiama l'attenzione sul fatto che l'ortodossia non è la mera conseguenza di un'intuizione teoretica, bensì il modo in cui concretamente si realizza un convincimento comune. Anche sul piano di una comprensione pluralistica della fede, nell'unità della prassi è possibile riconoscere l'unità della medesima fede. ... Il criterio per valutare l'ortodossia non andrà cercato tanto nella risposta giusta che si dà ad una domanda di catechismo, quanto nella forza di motivazione che la verità di fede ha per la nostra vita" (da H. Fries - Teologia fondamentale, Queriniana, pag. 131). Ma al di là delle posizioni teologiche la priorità della prassi è direttamente riconosciuta nel vissuto religioso odierno ed è espressa nella semplice affermazione che Dio è carità e amore, affermazione che chiaramente non vuole definire nessuna essenza relativa alla divinità, nessuna realtà teoretica ma solamente una realtà pratica (ricordo in proposito il pensiero già esposto di Duns Scoto e quello di Vattimo con particolare riguardo alla carità, limite e compimento della secolarizzazione).

E' urgente a mio parere liberare l'ortoprassi dagli ostacoli che nei secoli le sono stati posti da una presunta ortodossia. Essa ha offerto e offre tuttora troppe occasioni di strumentalizzazione a prassi interessate ad altri fini.

Si può comprendere meglio l'importanza della priorità dell'ortoprassi sull'ortodossia esaminando il fenomeno dell'idolatria. Questa patologia infatti è caratterizzata proprio dall'adorazione di un oggetto, fisico o concettuale, visto dall'uomo come fine della propria azione, ponendo se stesso come mezzo e non come fine nei suoi confronti. L'idolatria è stata una costante preoccupazione del popolo ebraico dell'Antico Testamento e contro di essa si sono scagliati soprattutto i profeti, da Isaia a Geremia, che hanno compreso il pericolo che avrebbe corso il popolo ebraico se invece di percorrere la strada della salvezza e della liberazione si fosse fermato ad adorare gli idoli. Non a caso, come già osservato altrove in questo scritto, l'ebraismo non ha sviluppato una vera teologia ma la Torah, le leggi cioè che devono regolare l'agire umano perché si possa percorrere il cammino verso il regno messianico. Gli ebrei "svilupparono il loro pensiero - osserva E. Fromm in Voi sarete come dei - fino a che Dio cessò di essere definibile da qualsiasi attributo definitivo di essenza, e un modo di vivere giusto per gli individui e per le nazioni sostituì la teologia". Il passo successivo che avrebbe potuto compiere la teologia ebraica, quello di arrivare ad un sistema "senza Dio", non è stato però compiuto. Passo che invece secoli prima è stato coraggiosamente compiuto dal Buddhismo che appunto è andato oltre la teologia negativa per arrivare ad una visione non teista del mondo.


Ecumenismo e dialogo interreligioso


La cartina di tornasole che facilita l'individuazione degli aspetti negativi delle religioni da quelli positivi è costituita dall'atteggiamento ecumenico. Gli ostacoli che si frappongono all'incontro tra le varie religioni sono proprio quegli atteggiamenti negativi che già tanti mali hanno causato all'interno delle religioni stesse.

Un reale e costruttivo ecumenismo è possibile solo se le credenze che accompagnano la fede sono secondarie rispetto ai suoi contenuti. "Il Grande Dialogo - osserva E. Fromm (1) - è basato sull'idea che l'esperienza e l'interesse comuni siano più importanti dei comuni concetti". Prendiamo ad esempio la fede nel valore dell'amicizia: non deve esserci attrito ma comune azione tra coloro che fondano tale valore sulla credenza che siamo tutti figli di Dio e quelli che invece lo ritengono essenziale per una crescita e una valorizzazione umana.

Le fedi delle grandi religioni mondiali non sono esattamente simili ma si completano a vicenda; il dialogo tra le fedi viene ostacolato solo quando i loro progetti di vita sono in palese contraddizione e si annullano a vicenda: ad esempio la fede nella non violenza di Tolstoi e Gandhi e la fede nella superiorità ariana dei nazisti.

L'atteggiamento ecumenico più esemplare di questo secolo è riscontrabile nelle parole e nell'azione di Gandhi, soprattutto nell'estremo tentativo di far dialogare mussulmani e induisti. Illuminanti sono le sue parole: "Le religioni - dice nel libro: Antiche come le montagne, ed. Mondadori, pag. 87 - sono strade diverse convergenti verso lo stesso punto. Che importa se prendiamo strade diverse, purché giungiamo alla stessa meta? In realtà, vi sono tante religioni quanti sono gli individui."..."Dopo lunghi studi ed esperienze sono giunto alla conclusione che 1) tutte le religioni sono vere; 2) tutte le religioni contengono qualche errore; 3) tutte le religioni mi sono quasi altrettanto care che il mio induismo, dacché tutti gli esseri umani dovrebbero esserci cari come i nostri parenti stretti. La mia venerazione per le altre fedi è uguale alla venerazione per la mia; perciò non è possibile pensare a una conversione". Ed ancora: "Ogni religione ha un proprio contributo da fornire all'evoluzione umana. Considero le grandi confessioni del mondo come altrettanti rami di un albero, ognuno distinto dall'altro, anche se tutti aventi la stessa derivazione." (dalla raccolta di scritti: La voce della verità; ed. Newton Compton 1991, pag. 167).

L'ecumenismo, per raggiungere la sua pienezza, deve poter stabilire un dialogo non solo tra le diverse fedi religiose ma anche tra queste e le fedi laiche o filosofiche. Queste ultime, che trovano direttamente nell'uomo, piuttosto che in una espressa visione teistica, stimolo alla riflessione, sono state nel passato e in maniera più incisiva in questo secolo portatrici di valori e speranze e hanno dato insostituibili contributi etici e politici dai principi di libertà, uguaglianza e tolleranza a quelli di democrazia e giustizia sociale. Questo allargamento dello spirito ecumenico a tutti gli uomini di fede, religiosa o laica che sia, è stato espresso ultimamente con passione da Arrigo Levi (Le due fedi - rivista Il Mulino, n. 6/94): "meglio sarebbe se la politica dell'ecumenismo fosse più consapevole del suo essenziale rapporto con una politica della ragione, se si ristabilisse un più chiaro terreno d'incontro tra religione e filosofia, e non soltanto tra religione e religione: giacché le religioni hanno in verità ancora molto da assimilare del messaggio umanistico laico".


Valenza estetica delle espressioni religiose


Un aiuto significativo al superamento delle contraddizioni tra scienza e "verità di fede", al raggiungimento di un vero dialogo ecumenico e interreligioso e all'eliminazione degli aspetti negativi delle religioni sopra esposti può venire dal riconoscere apertamente che le immagini e i concetti religiosi, siano essi relativi alla visione del mondo ed alla interpretazione della realtà o alle verità di carattere più specificamente religiose, sono espressione di verità con valenza estetica non cognitiva. Le credenze propriamente religiose, sono infatti funzionali e di supporto all'azione e al consolidamento degli ideali di vita ma non sono finalizzate alla conoscenza; sono proprio le verità di tipo estetico che posseggono le caratteristiche richieste dalle credenze religiose: pienezza di senso, capacità di toccare i sentimenti esistenziali più profondi e di dare interpretazioni organiche e significative alle esperienze umane. Se comunque alcuni concetti religiosi avessero anche un contenuto conoscitivo bisogna in merito distinguere fra i seguenti due casi: se inseriti in un discorso religioso acquistano valenza artistica mentre se inseriti in un discorso filosofico acquistano valore conoscitivo o di ipotesi conoscitiva sulla realtà; troppe volte nei discorsi filosofico-religiosi si sono create confusioni a causa della possibile ambiguità.

La verità artistica, differentemente da quella scientifica, non ha giustamente timore di perdere, dal confronto con la realtà o con altre verità artistiche, il suo valore eterno ed immortale che la caratterizza. Nella dimensione dell'arte hanno profondo significato per l'uomo e per il suo mondo interiore dei sentimenti un insieme di verità che non devono sottostare al principio di non contraddizione. Bisogna inoltre tener sempre presente che alla realtà viene dato un senso non con la scienza ma con l'arte: è grazie alla dimensione estetica che l'uomo coglie e dà significato alla sua vita. Nella dimensione estetica l'uomo dà libero corso all'immaginazione senza vincoli di confronto con la realtà: le verità estetiche non rappresentano descrizioni oggettive della realtà, anzi certe volte espressamente descrivono volutamente una realtà immaginaria dove può essere affermato tutto e il contrario di tutto. Da quasi tremila anni scrittori, poeti, pittori e artisti di tutto il mondo si sono impegnati a dare un contributo nel fornire significati al mondo e all'uomo. L'arte è la grande creatrice di significati. La religione, nella sua funzione di creatrice di immagini e visioni del mondo portatrici di significati esistenziali per l'uomo, può essere considerata da questo punto di vista la prima e la maggiore di tutte le arti.

Dando valenza estetica alle immagini e ai concetti religiosi si possono superare facilmente ostacoli e antinomie che sono stati visti come insormontabili nel passato.

La priorità dell'ortoprassi sull'ortodossia, discussa sopra, diventa ad esempio subito evidente. L'ortodossia, intesa come grande opera artistica, è funzionale all'ortoprassi come lo scenario di fondo e la musica alla rappresentazione teatrale: l'attenzione è rivolta all'azione che si svolge sulla scena, ai drammi che vengono vissuti dai protagonisti, ai sentimenti che li animano, non certo allo scenario di fronte al quale tutto questo si svolge. Lo scenario, anche se può essere differente da recita a recita a seconda della sensibilità del regista, è comunque indispensabile; come sarebbe povera infatti una rappresentazione teatrale senza un'adeguata scenografia che le dia significato!

Altrettanto vengono a cadere eventuali perplessità per un costruttivo dialogo tra le diverse religioni: si sa che sulle opere d'arte si possono esprimere solo opinioni e gusti personali, sulla base dei quali non potranno mai essere scatenate delle guerre di religione.

Il ricorrente fenomeno dell'idolatria, che ha sempre minacciato la purezza dei sentimenti religiosi (come ricordato precedentemente parlando di E. Fromm), si troverebbe inoltre privato del materiale stesso su cui basarsi e sarebbe di conseguenza automaticamente disinnescato. La battaglia contro l'idolatria, che percorre l'Antico Testamento, potrebbe essere quindi condotta senza dover necessariamente arrivare alla teologia negativa o al Dio nascosto del pensiero ebraico (Maimonide) o al divieto della rappresentazione di Dio del mondo islamico.

Per ultimo il dare valenza estetica alle credenze religiose permetterebbe di riannodare l'antica alleanza animistica (considerata giustamente da Monod irreparabilmente infranta sul piano conoscitivo) dell'Uomo con la Natura a un livello più familiare e consono da millenni per l'uomo: quello estetico. Se è vero, come afferma Monod, che la scienza "distrugge tutte le ontogenie mitiche o filosofiche su cui la tradizione animistica, dagli aborigeni australiani ai dialettici materialistici, ha fondato i valori, la morale, i doveri, i diritti, le interdizioni", potrà essere forse l'estetica a salvarle se non addirittura a valorizzarle.


L'opinione che le verità e le immagini religiose siano di natura estetica non è certo inedita ed è stata espressa più volte in epoche e contesti culturali differenti.

Nelle religioni orientali, in particolare nell'induismo, viene esplicitamente riconosciuto il contenuto poetico di molte immagini religiose diffidando al tempo stesso di tradurle in affermazioni filosofiche. Le religioni del mito mostrano in maniera ancora più evidente l'aspetto estetico delle loro immagini religiose.

Filone d'Alessandria - ci fa notare Arrigo Levi nel già citato scritto - nel tentativo di riconciliare le verità della filosofia greca con le Sacre Scritture sulle quali si fondava la sua incrollabile fede ebraica, dava ad esse una lettura allegorica.

Kant, come già osservato precedentemente, fa derivare alcuni concetti, che sono alla base delle verità religiose, dai giudizi sentimentali esaminati nella Critica del giudizio, ove appunto viene esaminata la facoltà estetica della ragione: mi riferisco in particolare sia alla visione finalistica della natura (il giudizio teleologico), e al concetto di Dio che tale finalismo implica, sia alla percezione del sublime, che è il termine che a mio parere usa Kant per descrivere l'esperienza del numinoso.

Passando alla teologia moderna ricordo l'importanza che ha dato von Balthasar, nella sua opera "Gloria", all'elemento estetico, che deve essere presente in ogni conoscenza spirituale; l'approccio più fruttuoso alle Sacre Scritture non è, a suo parere, quello cosmologico o antropologico ma proprio quello estetico.

Molto interessanti sono a questo proposito anche le riflessioni di Paul M. van Buren. Questo teologo, allievo di Barth e capofila della teologia radicale, dopo aver evidenziato nella sua opera "Il significato secolare dell'Evangelo" che le asserzioni teologiche sono dal punto conoscitivo dei non-sensi i quali pur tuttavia "riacquistano un senso se noi li interpretiamo e li rileggiamo in un codice etico-umanistico, se cioè li vediamo non come proposizioni su Dio ma come teorie sull'uomo" (Reale, Antiseri - Il pensiero occidentale dalle origini a oggi, Vol. 3 - Ed. La Scuola), nella sua successiva opera, "Le frontiere del linguaggio", spiega in quale dimensione il recupero di senso delle proposizioni teologiche possa avvenire, facendo osservare che il discorso religioso, come quello artistico, si sviluppa non nella zona centrale del linguaggio, dove si utilizzano termini chiari e precisi, utili alla scienza e alla vita quotidiana, ma alla sua periferia dove esistono metafore, analogie, paradossi, non-sensi. Le osservazioni di van Buren sul linguaggio religioso ricordano gli studi ermeneutici di P. Ricoeur che aveva già mostrato come il linguaggio della religione, del mito e della poesia, con l'uso simbolico di immagini e significati usuali, dia senso ontologico e trascendente all'esistenza umana.

Ancora più esplicito è E. Fromm che dice: "Dio è una delle numerosissime espressioni poetiche dell'umanesimo di più alto valore, non una realtà in se stesso" (da "Voi sarete come dei", Ubaldini, Roma 1970, pag. 17).

Negli ultimissimi anni la ricerca teologica cattolica italiana ha prestato attenzione alla componente estetica nell'esperienza religiosa cercando di sviluppare il discorso aperto da R. Otto e da von Balthasar, come possiamo capire dal testo di Pier Angelo Sequeri, Estetica e Teologia, che riporta le lezioni del corso di specializzazione in teologia fondamentale tenuto nel 90/91 presso la Facoltà Teologica dell'Italia settentrionale. L'esperienza religiosa, spiega Sequeri, è vissuta dall'individuo, a livello preconcettuale, come esperienza emozionata del senso ultimo del mondo e della vita, esperienza appunto caratterizzata da incantamento, fascinazione, stupore e inquietudine. Tale esperienza, che ha luogo nella coscienza credente (intesa quale struttura originaria della coscienza medesima), ha cioè le caratteristiche tipiche dell'esperienza estetica: percezione emozionata, immaginazione, sentimento e passione, tutte figure irriducibili al concettuale e all'operazionale. "Nessuno aderisce - dice Sequeri (pag. 29) - ad una figura del senso ultimo se non per una sorta di fascinazione della sua anticipabile bellezza".

La coscienza credente descritta da Sequeri ricorda molto da vicino l'approccio alla realtà che caratterizza l'insegnamento zen (come ce lo descrive Suzuki in Psicanalisi e buddismo zen), che consiste nell'educare l'individuo a saper percepire la realtà solo attraverso la ricchezza delle nostre esperienze dirette senza far ricorso alle intellettualizzazioni (pur riconoscendo all'intellettualizzazione il valore insostituibile che riveste nella vita e nell'azione dell'uomo).

Tornando di nuovo sul versante filosofico un contributo interessante ci viene oggi da G. Vattimo. In Oltre l'interpretazione, egli spiega come la comprensione ermeneutica della religione induca un progressivo indebolimento delle sue concettualizzazioni metafisiche dando luogo ad un processo di secolarizzazione che porta in prospettiva a far confluire l'esperienza religiosa in quella estetica. "Se l'arte - si augura Vattimo nell'ultima pagina del libro - può trovare la propria essenzialità divenendo consapevole del proprio statuto di religione secolarizzata, la religione potrebbe trovare in questo legame una ragione per pensarsi in termini meno dogmatici e disciplinari, più estetici ... ". Vattimo fa notare inoltre, nel libro suddetto, come il processo di secolarizzazione, facendo approdare la religione nell'arte, consenta una "liberazione della pluralità dei miti" favorendo una soluzione alla questione dell'ecumenismo e del dialogo interreligioso.


L'aspetto estetico delle credenze religiose può essere colto con maggior chiarezza prendendo in considerazione la loro fondamentale gratuità. Infatti la caratteristica essenziale di una verità religiosa è quella di essere gratuita, di non derivare cioè né da uno sforzo conoscitivo né da un tentativo di un'interpretazione plausibile della realtà e quindi di sfuggire a discussioni ove gli argomenti a favore o contro sono di tipo logico-razionale.

Se da un punto di vista conoscitivo la credenza religiosa può essere ritenuta gratuita non vuol però dire che sia arbitraria, che la sua formulazione non dipenda cioè da criteri ed esigenze ben precisi; essa ha l'arduo compito infatti, come ho già detto, di dare risposte "eterne" e "inconfutabili" alle pressanti richieste esistenziali che sorgono dall'animo umano. Le verità religiose, se devono risultare per l'uomo dei messaggi indiscutibili, non devono cercare di essere "plausibili", perché scivolerebbero verso la dimensione empirico-razionale ove per definizione tutto è, ed è bene che sia, discutibile, ma devono essere appunto gratuite.

Si può avere una conferma indiretta di questo aspetto esaminando il fenomeno, o meglio la patologia, della superstizione. In cosa consiste infatti l'atteggiamento supersizioso se non nel conferire a delle verità religiose delle valenze conoscitive e quindi nel porle a base di ragionamenti logico-deduttivi con risvolti pratici nella vita di tutti i giorni? Detto in altre parole, la superstizione nasce dalla confusione tra le immagini gratuite di carattere religioso, che possono anche servire di sostegno dei progetti di vita, e la conoscenza oggettiva.

Penso che il ricorso, che soprattutto il cristianesimo fa, ai cosiddetti "misteri della fede" costituisca un modo più velato, ma molto simile nella sostanza, di riconoscere la gratuità delle verità religiose e permetta di raggiungere ugualmente gli obiettivi di tenere rigorosamente separato il regno delle verità religiose da quelle conoscitive, di evitare qualsiasi speculazione teoretica su quelle, di combattere infine la degenerazione superstiziosa.

Quand'è comunque che nel corso dei secoli si sono verificati degli "incidenti di percorso" per le verità religiose? Tutte le volte che l'indagine scientifica e filosofica è arrivata a discutere di argomenti di completo dominio, fino a quel momento, della immagine religiosa del mondo. L'incapacità di distinguere tra la "misteriosa" verità religiosa, gratuita, indiscutibile e con valenze estetiche, e la verità scientifica, tesa ad una conoscenza oggettiva del mondo tramite una continua messa in discussione dei traguardi raggiunti, ha inevitabilmente portato a frequenti scontri e incomprensioni: dal caso Galileo a quello della teoria dell'evoluzione. Per le verità religiose infatti non è mai opportuno, a scanso di equivoci, trattare argomenti e spingersi ad affermazioni che qualche gustafeste possa attaccare con argomentazioni empirico-razionali togliendo loro tutta la poesia.

Bisogna osservare che nel passato raramente si sono avute comunque verità religiose pure, senza cioè una componente di conoscenza e interpretazione plausibile della realtà, perchè quasi sempre situate in una posizione intermedia tra i due poli ideali della verità religiosa e di quella scientifica, sempre interferenti l'una con l'altra e mai capaci di escludersi del tutto. L'intreccio tra la componente religiosa e quella scientifica era assai profondo nelle visioni del mondo dell'era prescientifica, ma con il caso Galilei è iniziato un processo di progressiva caratterizzazione delle credenze religiose come verità religiose da un lato e delle conoscenze scientifiche come verità empirico-razionali dall'altro, a tutto vantaggio di entrambe.

La presenza nelle credenze religiose di una componente conoscitiva ha portato a situazioni e atteggiamenti ricorrenti nel corso dei secoli: la messa in dubbio della componente conoscitiva all'interno della credenza religiosa è sempre stata vista dal mondo religioso come una diretta minaccia alla credenza religiosa stessa, con conseguenti atteggiamenti oscurantisti. Al tempo stesso però la dimostrazione empirico-razionale della componente conoscitiva all'interno delle credenze religiose è stata spesso, da quello stesso mondo religioso, utilizzata per dare forza e credibilità alla componente religiosa. A questo secondo caso appartengono ad esempio tutti i tentativi di dimostrazione filosofica dell'esistenza di Dio (per poi arrivare con Pascal a riconoscere che comunque il Dio dei filosofi non potrà mai aver nulla a che fare con il Dio delle religioni) fino ai recenti saggi a carattere divulgativo quali "La Bibbia aveva ragione" che lascia intendere che le verità storiche presenti nel testo sacro, se verificate, possano dare maggior credito al suo messaggio religioso. Sempre viziate da questo stesso atteggiamento sono le testimonianze di presunti fatti miracolosi. La chiave di lettura di un certo avvenimento straordinario deve essere gratuita se si vuole che abbia valenza religiosa; ma quale tentazione il sostenere un'interpretazione miracolosa facendo leva proprio sulle conoscenze scientifiche per dimostrarne poi (in maniera completamente ascientifica) l'inspiegabilità!

A conforto dell'idea di gratuità sopra esposta vorrei ricordare come concetti simili possano essere ritrovati in Sequeri, trattando proprio dell'approccio estetico alle verità religiose. Nel testo sopra citato, Estetica e Teologia, oltre ad osservare che "la forma propria della bellezza è quella del dono: dare forma all'idea, dare espressione alla materia, animare e creare, inventare e giocare" (pag. 31), egli insiste sull'assenza di scopo e sul carattere libero e incondizionato della percezione e della creazione estetica.


A scanso di equivoci devo precisare che parte degli autori (in particolare von Balthasar), che ho citato a sostegno della tesi sulla valenza estetica delle verità religiose, danno comunque un valore di oggettività ai simboli e alle figure con i quali entra in risonanza la nostra sensibilità estetica. Non condivido questo riconoscimento di oggettività che vuol far rientrare dalla finestra sotto forma di verità estetica ciò che le nostre facoltà cognitive hanno giustamente fatto uscire dalla porta. La sfera dell'estetico appartiene alla nostra soggettività, alla nostra interiorità; i simboli e le immagini che emergono nella dimensione estetica sono frutto di una nostra creativa attività interiore e non rappresentano una descrizione oggettiva della realtà che ci circonda. In proposito osservo che se il pensiero occidentale, dopo l'inizio della rivoluzione scientifica, ha spesso avuto paura di parlare di soggettività, il mondo orientale al contrario ha sempre ricercato la spiritualità nella soggettività cercando di liberarla da ogni interferenza di intellettualizzazioni ed oggettivazioni.


Democrazia


La fede che unisce e ispira l'azione di una comunità può essere sincera e costruttiva solo se vissuta in un clima di vera democrazia. Solo in un ambiente democratico una comunità riesce a crescere umanamente ed eticamente senza lasciarsi andare ad atteggiamenti passivi e di sottomissione a quella che E. Fromm ha chiamato l'autorità irrazionale (si veda in proposito il primo capitolo di "Man for Himself" ove vengono caratterizzate e contrapposte l'autorità razionale e quella irrazionale).

Democrazia vuol dire in ogni caso che non solo viene accettato ma che viene anche giudicato positivo il fatto che non ci possa essere sempre unanimità sia su come realizzare gli obbiettivi della fede sia su come interpretare e analizzare la situazione su cui si vuole incidere con l'azione.

L'individuo in un ambiente democratico, anche se si rimette alle decisioni della maggioranza, sa comunque che la sua partecipazione e le sue proposte hanno pur sempre un ruolo costruttivo e che, anche se si adegua alla maggioranza, gli è lecito coltivare ugualmente le proprie convinzioni senza doversi sentire in colpa, anzi sapendo che proprio con quell'atteggiamento contribuisce alla vera forza e alla giusta evoluzione del progetto di vita della comunità cui appartiene.

La fede che anima una comunità ha per molti dei suoi contenuti un orizzonte più vasto di quello della generazione vivente estendendosi sia a quelle passate sia a quelle future, che sono sentite come appartenenti ad uno stesso organismo, ad una stessa civiltà: ogni generazione infatti eredita da quelle precedenti una visione ideale di vita e al tempo stesso la trasmette a quelle future. Come ho già espresso precedentemente (al Cap. 4) devono essere tenuti nella giusta considerazione le aspettative, i progetti, gli ideali di quanti ci hanno preceduto nonché il tipo di mondo che potrebbero voler ereditare da noi le future generazioni; detto in altre parole i soggetti che democraticamente hanno diritto a partecipare alla elaborazione dei contenuti di una fede non sono solo quelli dell'epoca presente ma, in un modo del tutto speciale, anche quelli delle epoche passate e di quelle future. Il rispetto della "Tradizione", sovente invocato da ambienti conservatori, può certamente esprimere questa disponibilità ad ascoltare la voce delle generazioni passate. Questo atteggiamento acquista però un valore positivo solo se accompagnato da altrettanto rispetto delle esigenze di libertà e di crescita delle future generazioni, altrimenti rivelerebbe solo nostalgia del passato ed incapacità ad affrontare il futuro. Il peso da dare alla "Tradizione" e alle "Aspettative" delle future generazioni deve comunque essere il frutto di un'elaborazione democratica da parte degli individui appartenenti alla generazione vivente e non può essere stabilito e imposto da un'autorità che si autoproclami loro interprete unico e indiscutibile.





BIBLIOGRAFIA


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- VATTIMO GIANNI, Oltre l'interpretazione, Laterza, Bari 1994.





INDICE


PREFAZIONE


1 INTRODUZIONE


2 CARATTERISTICHE DELLA FEDE


3 FEDE E ETICA


4 FEDE E DEMOCRAZIA


5 ITINERARI VERSO LA FEDE


6 LA TENSIONE NELLA STORIA TRA PROGETTI DI VITA (FEDI), CREDENZE IDEOLOGICO-RELIGIOSE E LA CONOSCENZA SCIENTIFICO-FILOSOFICA


"La Repubblica" di Platone - Le religioni del mito - La predicazione di Gesù - S. Paolo e i Padri della Chiesa - Il cristianesimo nel medioevo - Il cristianesimo all'inizio dell'impresa scientifica - Spinoza - I. Kant - Il periodo positivista e la reazione antipositivista - R. Bultmann, J. Moltmann, E. Balducci - J. Huxley, E. Fromm, E. Bloch - Jacques Monod - Gianni Vattimo - Le filosofie e le religioni orientali


7 ASPETTI POSITIVI E NEGATIVI NELLE RELIGIONI


8 PROPOSTE PER UNA VITA DI FEDE SENZA CONTRADDIZIONI NELL'AMBITO DELLE RELIGIONI TRADIZIONALI

Ortoprassi – Ecumenismo e dialogo interreligioso - Valenza estetica delle espressioni religiose - Democrazia


BIBLIOGRAFIA




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