Moncalieri, 21 febbraio 2015


Isis 3

Nelle mie due precedenti appunti Isis e Isis 2 avevo tratteggiato alcuni dei motivi per cui non credo possibile un efficace intervento armato dell'Europa o degli Stati uniti in Libia. A proposito vorrei solo aggiungere, per quanto riguarda gli Europei, che basterebbe a quegli sciagurati assassini catturare qualche ostaggio occidentale e minacciare di ucciderlo per ottenere qualunque cosa essi richiedano al paese di appartenenza degli ostaggi. Vi immaginate un leader politico europeo che rifiuta il ritiro delle proprie truppe, difronte ad una opinione pubblica impietosita da sconvolgenti immagini dei terroristi? Gli Stati Uniti, poi, cominciano a perdere interesse per del medio oriente, in quanto da una parte si avviano a diventare energeticamente indipendenti e dall'altra i loro interessi si concentrano sull'area dell'Estremo Oriente.

Oggi vorrei affrontare un altro argomento che riguarda il terrorismo internazionale e che spesso viene tralasciato o sottovalutato: le motivazioni che stanno alla base di certi comportamenti, dall'apparente assurdità, ma che pure coinvolgono un enorme numero di persone. Non voglio certo qui parlare di tutte le possibili motivazioni del terrorismo islamico: ci vorrebbe un trattato ed io non ne ho certo la capacità. Mi soffermerò quindi su un solo aspetto di certi comportamenti di massa apparentemente assurdi.

Partirò alla lontana, con qualche esempio di vita vissuta.

Qualche anno, in vacanza a Sharm El Sheik, fa mi ero recato a fare degli acquisti in una piccola gioielleria del luogo, insieme a mia moglie ed a una coppia di italiani, conosciuta occasionalmente sul posto. Fatto qualche piccolo acquisto, egregiamente serviti da un commesso, siamo stati pregati di attendere per il pagamento l'arrivo del padrone del negozio, mentre ci veniva servita una bevanda calda e dei dolcetti. Nell'attesa, i nostri conoscenti, assolutamente incurante del fatto che probabilmente il commesso presente comprendeva benissimo quello che dicevano, si sono lanciati in una serie di commenti negativi su quei “vu' cunprà” che non avevano neppure la voglia di presidiare costantemente il loro negozio. Qualche dubbio sull'essenza del “vu' cumprà” mi è venuto subito quando al suo arrivo egli ha subito adocchiato gli orecchini, di ottima fattura artigianale, che mia moglie indossava ed ha chiesto di pulirli, naturalmente con una mia iniziale titubanza. Rivisto occasionalmente il tizio, siamo entrati in confidenza, poiché ho scoperto che soffriva anche lui dei miei stessi problemi alla schiena. Orbene, il tipo aveva sei negozi di gioielleria in Sharm, un appartamento a Istanbul, uno a New York, passava regolarmente le sue vacanze invernali in Alto Adige (con una donna italiana) e , dulcis in fundo, era figlio del più grosso fabbricante di gioielli d'Egitto (e perciò aveva voluto osservare attentamente , nonostante la mia diffidenza, gli orecchini di mia moglie). Riferito la cosa alla coppia che era stata con noi in quel negozio, la reazione era stata un'alzata di spalle, ma non credo proprio che a quell'egiziano interessasse più di quel tanto la loro opinione su di lui.

Stessa località, altro personaggio: il ragazzo dell'equipe dell'albergo, velista eccezionale, che mi porta in giro su in catamarano per Naama Bay. Veniamo a parlare del più e del meno dei nostri paesi; ad un certo punto egli esclama: se voialtri siete eredi dei Romani, noi altri discendiamo dai Faraoni! Il ragazzo parlava un perfetto Italiano ed aveva studiato in una scuola cattolica di Alessandria (d'Egitto, naturalmente). Forse a lui portare in giro degli italiani in una barca non sua (e forse anche quella di Italiani) pesava di più di quanto non pesasse al proprietario della gioielleria di avere clienti italiani.

A questo punto ho cominciato a pensare a quello che poteva frullare nella mente di qualcuno degli inservienti dell'albergo in cui alloggiavo, tutti rigorosamente di sesso maschile, quando qualche ospite aveva una osservazione irriguardosa nei suoi confronti, o quando vedeva le turiste occidentali sfilargli sotto gli occhi a seni nudi ed in tanga. Non si sarà sentito un disgraziato erede di quegli Arabi che avevano conquistato un enorme regno ed avevano apportato grandi miglioramenti nella cultura e nel saper fare (know-how, si dice oggi) delle popolazioni conquistate? Si pensi solo al sistema numerico che oggi usa tutto l'occidente, alle canalizzazioni di acqua potabile per luoghi prima aridi (Granada in Spagna ne è un esempio eclatante), all'introduzione della coltivazione degli agrumi in tutto il bacino del Mediterraneo.

Quello che sto dicendo non riguarda certo solo gli Arabi, o i Musulmani, (i due termini denotano il primo un'etnia, il secondo una religione, ma stranamente sono spesso, nel pensiero di molta gente, assimilati); lo stesso sentimento di rimpianto mitico ho notato, per esempio, più volte nei in alcuni Francesi, con riferimento a Napoleone o a De Gaulle, o in alcuni Austriaci, con riferimento all'Impero Austro-ungarico. Si trattava sempre di persona la cui condizione di vita, per dirla in maniera eufemistica, non era ottimale o la cui famiglia aveva subito una discesa sociale.

Cosa voglio dire con gli esempi esposti: che il rifugiarsi nel mito può essere una via di fuga dalla realtà e che un mito o un simbolo è il collante indispensabile per la nascita e la crescita di forti movimenti di massa. Atteggiamenti provocatori o disparità sociali molto forti spingono gli individui più deboli culturalmente a rifugiarsi nel mito, che diventa la loro principale ispirazione di vita. Naturalmente, quando è presente una tendenza culturale delle masse, c'è sempre chi è pronto ad approfittarne e ad utilizzarla per i propri interessi. Un esempio evidente di quanto sto dicendo è costituito dal tifo calcistico: nasce un mito (l'appartenenza ad una squadra) in cui si identifica una massa di individui, si identificano gli eroi (i calciatori) e vi sono dei personaggi che approfittano del sentire di molti per i propri scopi, siano essi economici o di potere o altro. Nulla importa alla massa del fatto che in realtà il mito non rappresenta proprio nulla per i singoli appartenenti alla tifoseria: le squadre sono costituite da atleti che perseguono solo il loro interesse personale, i proprietari della squadra possono anche non essere neppure della stessa nazionalità dei tifosi, la squadra cambia atleti, dirigenza, proprietà senza alcuna correlazione con la sua tifoseria: il tifoso continua a tifare, spesso purtroppo irragionevolmente, per la sua squadra.

Nel caso dell'Isis si ha, a mio parere, anche un fenomeno analogo di sentimento di appartenenza, a prescindere dalla realtà, che spinge non solo gli arabi o i musulmani, ma anche giovani di cultura e tradizioni iniziali ben differenti ad identificarsi con i valori anomali e abnormi di una massa di taglia-gole. Non a caso il profilo di qualche foreign fighter che viene pubblicato in questi giorni coincide con il profilo di molti estremisti della tifoseria sportiva; ma non mi voglio inoltrare in questo campo, in cui non ho certo competenza.

Quello che, invece, mi preme fare rilevare è che certi comportamenti, normali in molti Occidentali e di cui parlavo all'inizio, possono esser il substrato su cui si possono innescare fenomeni incontrollati di reazione violenta. Purtroppo assistiamo ogni giorno a dichiarazioni di leader politici in ogni parte di Europa che soffiano violentemente su questo fuoco, salvo poi meravigliarsi quando le fiamme si alzano con violenza.

Pietro Immordino


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