Moncalieri, 12 luglio 2016

Fede nella democrazia

Comincerò con una digressione, utile per comprendere il proseguo; Giuseppe Aschieri nel suo saggio Fede come progetto di vita usa la parola “fede” con un significato più nobile di quanto io non farò in questo mio articolo; io ho usato la parola fede nel significato di credenza assoluta in una idea, indipendentemente da contesti temporali e spaziali molto diversi fra loro. In questa accezione la fede può diventare un elemento negativo e pericoloso per chi la professa.

In tutta la mia vita da adulto ho sentito parlare di Democrazia, e non a caso uso l’iniziale maiuscola, come di un mantra del cui contenuto e significato fosse inutile, anzi quasi sacrilego, discutere. Spesso mi veniva in mente, quando parlavo con un assertore assoluto della democrazia, quello che da bambino mi sentivo dire alle lezioni di catechismo: la fede uno o ce l’ha o non ce l’ha. Mi verrebbe da dire che è un modo molto poco democratico di affrontare il problema, ma cadrei nello stesso errore che voglio attribuire ai fedeli della democrazia: utilizzare una parola di cui non si sono chiariti bene i contenuti.

Una cosa che ho già detto in altro articolo è che quanto si chiede a qualcuno, anche di notevole spessore intellettuale, che differenza c’è fra la democrazia e la demagogia molto raramente si riesce ad ottenere una risposta pienamente accettabile e razionale. Avevo a suo tempo letto una definizione di Eugenio Scalfari, che non mi pare proprio risolutiva del problema: la democrazie è promettere ciò che si può realizzare, la demagogia ciò che non si può realizzare. Un leader non deve promettere, ma indicare le strade da percorrere per raggiungere degli obiettivi; che questi obiettivi siano realizzabili o meno dipende dalla sua capacità e volontà e dalla capacità e volontà del suo popolo.

Volendo insistere sulla differenza fra democrazie e demagogia, si potrebbe anche dire che assecondare tutte le volontà e i desideri popolari, come fa il demagogo, è la più alta forma di democrazia. Naturalmente non è questo il mio pensiero, ma voglio soltanto dimostrare come parlare di democrazia, senza riempire la parola di contenuti, può portare a delle conclusioni aberranti.

Forse, prima di attribuire proprietà taumaturgiche alla parola democrazia bisognerebbe osservare i reali contenuti di questa forma di governo nelle varie epoche storiche e nei vari paesi. Se è vero che la storia non si ripete mai allo stesso identico modo, è vero altresì che dalla storia c’è molto da imparare. Senza volermi dilungare molto su questo argomento, voglio fare solo un accenno all’antica Roma ed in particolare al periodo nel quale il suo motto era “Senatus PopulusQue Romanum”. In quel periodo il senato prendeva tutte le grandi decisioni e i tribuni della plebe, qualche volta più potenti degli stessi senatori, sentivano gli umori della plebe e li riportavano al senato. Era il senato, alla fine, a prendere le decisioni, ma lo poteva fare perché ai senatori venivano riconosciuta dalla plebe la competenza per farlo. Quando il prestigio del senato cominciò a decadere, fatalmente venne fuori l’uomo forte e la democrazia ebbe fine.

Naturalmente ho brutalmente semplificato la storia romana, solo per esprimere il concetto che la forma della democrazia è essenziale per il suo funzionamento; ma, venendo a periodi più recenti, ricordo bene che c’era nell’immediato dopoguerra una classe dirigente percentualmente limitata, della quale gli altri cittadini riconoscevano la competenza e l’onestà, che indirizzava il voto della gran parte della popolazione. Ora, una testa un voto è uno slogan bellissimo, ma pericolosissimo se portato alle estreme conseguenze. Dopo lo sciagurato risultato del referendum in gran Bretagna (Brexit) parecchi di quelli che avevano votato, intervistati, hanno dichiarato di non avere idea di quello per cui avevano votato; parimenti in Italia parecchi intervistati non sapevano neppure del referendum costituzionale di ottobre. So che è una strada impervia e pericolosa, ma forse il troppo amore per la democrazia ha condotto ad una forma istituzionale che in molti paesi europei porta automaticamente al governo una classe politica in gran parte incompetente e corrotta, che fa leva sull’ignoranza dei problemi e sull’emotività della gente. D’altronde le classe dirigenti, e non solo politiche, del passato recente hanno perso ogni stima da parte della popolazione, per i loro comportamenti etici e per la loro incapacità di governo. E allora? E allora penso che tutti coloro che hanno fatto della democrazia un mantra, come dicevo all’inizio, farebbero bene ad impegnarsi a definirne i contenuti non in termini generali e generici, ma adattandoli ai tempi e ai luoghi. Per esempio, come ho detto altre volte, la democrazia negli stati Uniti ha assunto le forme, se pure non dirette, della plutocrazia: diventa presidente degli states colui che ha fatto la raccolta di fondi elettorali più cospicua. Eppure tutti diciamo che quella è la più grande democrazia esistente.

A questo punto mi viene da parlare della volontà dei democratici di esportare la democrazia presso i popoli che hanno altre forme di governo. A prescindere dal fatto già detto che bisognerebbe prima definire le forme della democrazia che si vuole esportare, la prima cosa da appurare è se la maggior parte del popolo che si intende democratizzare è d’accordo, come pare dato sempre per scontato. Inoltre bisogna esaminare bene se la democrazia è utile o dannosa ai democratizzati, ma pure ai democratizzanti. Gli sciagurati abbattimenti di alcune dittature hanno mostrato il danno che si può fare per questa via. Il caso più eclatante e incontrovertibile è stato l’abbattimento di Saddam Hussein: se fosse rimasto al potere, sarebbe stato molto meglio per gli Iracheni e per noi; lo stesso può dirsi per Gheddafi.

Quale vuole essere la mia conclusione: la scelta di una forma di governo non può essere definita una volta per tutto e per tutti. Noi paesi occidentali al momento stiamo assistendo ad una degradazione dei nostri sistemi democratici, dovuta essenzialmente alla mancanza di classi dirigenti valide e/o riconosciute. Questo è dovuto probabilmente alla caduta delle ideologie che hanno dominato gran parte del secolo scorso. Ora il mondo è governato non più dalla politica ma dal denaro. Le decisioni politiche non possono ignorare le decisioni del mondo della grande finanza e quindi l’indipendenza di ogni capo di governo viene messa in dubbio. Forse questa impossibilità pratica della politica di rendersi indipendente dalla grande finanza ha causato l’avversione del popolo verso chiunque rappresenti un'autorità pubblica; di questo voglio però parlare in un altro articolo. Al momento quello che resta da fare è adattare le forme della democrazia al paese; ma qui, ohimé, mi trovo in crisi: cosa pensare per un paese come l’Italia? Spero che qualcuno abbia più capacità per escogitare qualcosa per uscire da questa crisi, che, prima che democratica, è sociale.

Pietro Immordino

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