Moncalieri, 9 novembre 2016

Trump e il ventre delle nazioni

Già diverse volte nei miei scritti ho dichiarato la mia avversità alle elezioni dirette, riferite ad una platea di votanti molto estesa: ben diverso è scegliere direttamente il sindaco di un piccolo comune da scegliere il presidente di una nazione. Nel primo caso il candidato è conosciuto personalmente dai suoi elettori e i risultati delle sue azioni di governo sono facilmente controllabili; nel secondo caso si vota per una immagine televisiva, per i commenti letti sui media, per l’efficacia di una battuta colta in televisione. Ritengo, quindi, che la democrazia abbia necessità di potere contare su una classe dirigente intermedia, riconosciuta dal popolo e che sappia a sua volta scegliere i vertici dello stato. Ancora, più di un paio di anni fa scrivevo in Crisi economica e democrazia sulla difficoltà di governare in maniera democratica nei momenti di crisi; l’anno prima prima avevo analizzato in Le radici della demagogia le condizioni che che stanno alla base della crescita della demagogia. Chi ne avesse voglia può dare un,occhiata ai due scritti, che servono a spiegare alcune delle ragioni che hanno portato all’elezione di Trump.

In questo mio scritto mi voglio soffermare su un altro molto importante fattore che ha contribuito all’elezione di un presidente degli Stati Uniti che sembrava avversato da tutti e, cioè, sulla grande diversità che esiste fra la rappresentazione pubblica di un paese e la effettiva consistenza delle opinioni profonde della maggior parte dei cittadini.

Gli States hanno un presidente negro, il che farebbe pensare ad un superamento delle barriere razziali; ma il Ku Klux Klan è tuttora attivo ed anzi viene dato da qualcuno numericamente in ascesa. Inoltre, le cronache quotidiane ci parlano di uomini di pelle nera uccisi dalla polizia, in numero enormemente superiore rispetto ai bianchi.

Per parlare di fatti recenti italiani, la recente legge sulle coppie di fatto farebbe pensare ad un paese molto avanzato in materia, ma basta stare a sentire una discussione in un qualsiasi bar, magari dopo qualche birra, ed i gay ritornano ad essere froci, ricchioni, garrusi, a seconda delle provenienze regionali di chi parla. Provate, poi, a chiedere ad una mamma se le è indifferente avere un figlio o una figlia omosessuale ed otterrete una sicura risposta negativa nella stragrande maggioranza dei casi.

Continuando a parlare dell’Italia, nella prima repubblica pochi ammettevano apertamente di votare D.C., ma alle elezioni la Democrazia Cristiana riceveva sempre una valanga di voti. La stessa cosa, sia pure con una minore incidenza, accadeva con Berlusconi.

Perché accade questo? Per capirlo bisogna un poco spogliarsi dalla filosofia del “popolo sovrano” e simili bellissime ma improbabili affermazioni. In realtà in tutte le società ed in tutti i tempi la partecipazione attiva al governo della cosa pubblica è sempre stata appannaggio di una o più minoranze, che si aggregano o si dissolvono in base a comuni interessi particolari; la maggioranza o assiste passivamente o si accoda per convenienza o condiscendenza. L’umore profondo del popolo rimane sempre ben nascosto e viene fuori solo in circostanze o protette o eccezionali. Il cittadino si sente protetto dal segreto dell’urna ed esprime la sua vera opinione; quando la corda è troppo tirata, la gente scende in piazza e fa le rivoluzioni. A proposito, in Italia c’è mai stata una vera rivoluzione di popolo?

D’altronde, l’astensionismo dal voto e la scarsa partecipazione alla gestione della cosa pubblica non sono certo fatti di oggi. Ricordo solo che in Italia, fino a qualche anno fa, partecipare alle votazioni era un dovere oltre che un diritto; la gente andava a votare anche per paura delle conseguenze di un non voto. Ma risalendo nella notte dei tempi, ad Atene l’agorà veniva riempita, in occasione delle manifestazioni politiche, anche a mezzo di incaricati, che, armati di bastone, andavano in giro per raccogliere la gente.

Parlare alla pancia delle persone è assai facile nei momenti di crisi: la paura annebbia le capacità intellettuali e spinge a cercare soluzioni facili e capi taumaturgici; è così facile spiegare i successi di tanti che vengono definiti populisti, ma che sono quelli che colpiscono direttamente il ventre del popolo.

Quale conclusione posso trarre, a parte l’inevitabile delusione e la constatazione della quasi nulla utilità dei sondaggi? Solo la speranza che, come pare dai primi discorsi post-elezione di Trump, le dichiarazioni pre-elettorali siano poi nei fatti molto attenuate nelle azioni effettive di governo. Ma, chi di speranza vive, di speranza muore!

Pietro Immordino

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